in copertina l'autore in un'altra vita
Ho dormito
quattordici ore di fila e mi sono svegliato affamato, ieri ho saltato la cena.
Così prima di fare la doccia sono sceso giù a far colazione, in pigiama. La
signorina della reception mi ha fatto un sorriso erotico che quasi mandava
all’aria i miei piani per la giornata. Mentre mi riempivo la pancia di
croissant mi son chiesto se per caso non sia sul serio Adelina.
Tornato in
stanza molto appesantito dal breakfast (io adoro far colazione negli alberghi,
sbrano tutto quello che ha un pur vago aspetto commestibile) ho deciso di
buttarmi un poco sul letto a digerire, non c’è fretta.
Ho aperto il
libro di Jack London e ho cominciato la lettura. L’inizio è davvero
sorprendente, le analogie fanno venire la pelle d’oca. Poi il protagoista
Darrel Standing ci racconta che si trova in una cella in attesa di essere
impiccato e che negli anni in cui è rimasto a marcire in prigione (ha ucciso un
uomo, sa di meritare il carcere) ha scoperto di essere in grado attraverso
l’autoipnosi di vedere le sue altre vite:
E allora, per mezz’ora, dieci minuti,
talvolta per un’ora o giù di lì, vagavo in maniera erratica e insensata per gli
innumerevoli ricordi accumulati nei miei eterni ritorni su questa terra. Ma
tempi e luoghi si succedevano con rapidità eccessiva. Capivo solo, quando
tornavo in me, che io, Darrell Standing, ero la personalità che connetteva fra
loro eventi fra i più grotteschi e bizzarri. Nulla di più. Non riuscivo mai a
rivivere un’esperienza completa, con piena coscienza dello spazio e del tempo.
I miei sogni, se tali posso definirli, non avevano né capo né coda.
Poi inizia a
fare esempi di vite precedenti, anzi di brevi flash, e di nuovo mi è venuta la
pelle d’oca per le incredibili analogie, al punto che ho pensato seriamente
d’essere io stesso la reincarnazione di Jack London:
Per darvi un esempio, in una sola quindicina
di minuti di abbandono in questo stato, ho strisciato e muggito nel fango
primordiale e sono stato seduto accanto a Haasfurther, solcando i cieli del
ventesimo secolo in un monoplano a gas. […] mi sono assiso in corti regali, in mezzo ai notabili e in mezzo ai
servi, sono stato buffone e giullare, armigero, monaco e scrivano. Io stesso
sono stato re, assiso a capotavola stringendo nel pugno la spada…
E continua
così, a lungo, elencando i suoi molti mestieri ― schiavo, marinaio, sgherro,
erudito, anacoreta, guerriero ― e le sue innumerevoli vite. Ma il brano più
sconvolgente lo trovo alla fine del sesto capitolo:
Nulla si crea dal nulla. Non avrei potuto,
in cella d’isolamento […] inventarmi
dal nulla […] tutte queste visioni
che coprono tanto tempo e tanto spazio. Esse erano nella mia mente, e nella mia
mente stavo ora apprendendo a percorrere i meandri.
Scrive
proprio così, percorrere i meandri,
da rimanerci secco per l’emozione. Tanto per cominciare ho digerito all’istante
tre cappuccini, due uova col bacon, cinque croissant alla crema, tre toast con
burro e marmellata d’arancia, due yogurt ai frutti di bosco, una cuccuma di
muesli e un metro quadrato di torta di mele. Non avevo fame, questo no, ma mi
sentivo leggero come una piuma e temevo che l’anima se ne volasse via. I meandri, quei tracciati tortuosi e
intricati di strade, passaggi, luoghi, edifici in cui è difficile orientarsi…la
parte impenetrabile dell’animo umano…i meandri
di cui è stufa Lucie…
È una parola
che quasi non conoscevo e adesso la usano tutti, Jack London, Lucie, Camilla,
io…Ciocci di sicuro dirà che anche lui viene dai meandri, quelli del babbo, che
la mattina dà libero sfogo alla fantasia e scrive tutto quello che gli frulla
nel capo, senza porre confini, pesca nei meandri del proprio io sgangherato e
tira fuori il sottoscritto, Ciocci, Camilla, Bertrand, il conte di Antignano,
Nello, Terzi, Bob, Manfredi, Oscar D’Amelio, John Osborne, Michael Lo Piccolo,
Ottieri, la signorina della reception…come si chiama? Devo chiederglielo.
Faccio la doccia, mi vesto e vado a chiederglielo, dovrò dire bonjour, common s’appelle? Non credo si
dica così, ma è meglio sbagliare, fa più esotico.
Così ho fatto
la doccia, eterna, e come sempre ho cantato Toréador,
en garde! Toréador! Toréador! con la mia bella voce di basso, mi ha fatto
proprio bene, ha allontanato i fantasmi, a loro non piace la lirica e odiano
Bizet. Poi mi son vestito, non come ieri, con i miei soliti vestiti casual, e
sono andato giù dalla signorina. Però quando mi ha visto vestito casual è
rimasta un po’ delusa, forse si aspettava il gentleman di ieri o il pagliaccio
giallo ocra o zolfo, comunque RAL 1016, questo me lo ricordo. Allora sono
tornato in stanza e mi son messo l’abito blu cobalto (RAL 5013). Poi son sceso
di nuovo alla reception, ma c’erano tutti, Camilla, Ciocci e Bertrand, così ho
deciso di rimandare l’approccio ad un altro momento, soprattutto per via del
francese, avrebbero riso.
“Ti sei
ripreso?”
“Mai stato
così bene, andiamo”
“Dove?”
“Al Musée
D’Orsay, da Lucie”
“Come fai a
sapere che è lì?”, chiede Camilla.
“Lo sento”
“Va bene, se
lo credi…però…”
“Però cosa?”
“Però ci
sarebbe un modo più semplice, ho il suo numero telefonico”
“Ti ha dato
il suo numero?”
“Si, ha detto
di chiamarla, era preoccupata, sei svenuto…ricordi?”
“Si, certo,
chiamala subito”
Camilla la
chiama, le dice che sto bene e le chiede se possiamo incontrarla, poi ascolta
la risposta e dice va benissimo, alle 11
al Musée d’Orsay…si…davanti a Zuccheriera,
pere e tazza blu di Cézanne…a dopo”
“Hai visto,
avevo ragione”, dico felice.
“Si, avevi
ragione, è andata lì, come hai fatto?”
“Conosco i
miei polli, la mia Adelina, prima il Louvre e poi il Musée d’Orsay”
Uscendo
dall’hotel la signorina della reception mi fa un altro sorriso
inequivocabilmente erotico, io sento un brivido di piacere e dico agli altri
che ho dimenticato qualcosa, di aspettarmi al taxi. Senza riflettere, preso
dalla follia, vado dalla signorina e la bacio con trasporto sulle labbra, poi
fuggo via come Cenerentola, no, non come Cenerentola, fuggo via e basta.
Bibliografia pel capitolo 35:
RispondiEliminaZoani Giovanna, Aschenputtel, Cendrillon, Cenicienta. Cento Cenerentole a confronto, Edizioni del Litorale, Ladispoli 2006.
Nicoletta Sergio, Zuccheriere, pere e tazze blu da Paul Cézanne a Tony Ponzi, «Quaderni della Associazione Italiana Investigatori Privati», XVII (2008), pp. 78-103.
Careri Enrico, Meandri, 2012, inedito.
La nonna di Ciocci attende oggi editore e moglie a Roma, l'autore è preoccupato per il capitolo 36: chi se ne occuperà in sua assenza? Nenè? Franchetto?
RispondiElimina(Ged è all'altezza del Giglio, ha preso una spina di riccio su degli scoglietti, ha approfittato del basso fondale per mettersi il Fissan sulle ascelle)
Ciao, ben ritrovati.
RispondiEliminaFrammenti
(alla maniera di Saffo) di Pilon
Frammenti - V (da Ateneo, XI)
… Adelina … i tuoi occhi come il mare di Lemno
mi hanno toccato il cuore …
…
… che Afrodite stanotte mi ha parlato
Frammenti - VI (da Strabone, VI)
Un’anima che vaga come il vento notturno
e mani silenziose che scompigliano la spuma delle onde
e i primi olivi… quasi sulla riva
…
capelli e leggiadri calzari
Frammenti - VII (Da Massimo Tirio, Dissert. XXIV)
Sei tu, Maura, che abiti il vento Aquilone?
Perché mi scrivi, ora, un canto sulla pelle?
…
E’ la tua anima ad abitare il vento?
… fino a Citno verdeggiante… e Ciocci
Frammenti - IX (dallo Scoliaste di Pindaro, Pizie, II, 12)
Vorrei essere l’orlo della tua veste
e le dita della tua mano…
… oh, se l’anima mia potesse trasmigrare!
Frammenti - XI (Da Erodiano, περὶ μονήρους λέξεως, p. 7)
Si sparge per la via
il canto di Lucia
richiamando frotte
…
di mignotte.
ille si fas est superare divos
RispondiEliminaChe questo pezzo di ferro te n'entri nel tallone
RispondiEliminarazza di tanghero borioso
disprezzato dagli dei, nato storto
più storto dell'ulivo di Cartiade
asino, Diomeneo!
Roscia
che ce l'hai con me?
RispondiElimina(alla maniera di R. De Niro)
Pubblico volentieri su ordinazione dell'autore:
RispondiEliminaL’urtema sagliuta
(alla maniera di S. Di Giacomo) di Pilon
Chiano chiano
mont’ a china.
Chino chino
saglie su.
Mont’ a china
da Toledo,
chiano chiano.
E ‘un saglie cchiù.
“Ti si’ fatto
vecchiarello,
né, Pasquà,
nun canti cchiù?”
Va pensanno, arrecurdanno.
Chiano chiano e ‘un saglie cchiù.
So’ vent’anni. “E mo che d’è?
assettatevi, Pasquale”.
“Ma Adelina mia nun c’è?”
“‘A vulite ‘na pizzella?”
“Ma Adelina mia nun c’è?”
“’A tenite ‘na scarsella?”
“Nun ne tiengo, ‘un tiengo cchiù”.
Va pensanno, arrecurdanno.
Chiano chiano e ‘un saglie cchiù.
“Mò te siento, Adelina,
mò te parlo, parli tu?
T’arritruovo dint’o vento
‘na carezza ‘a bbuoi dà tu?”
“Don Pasquà, ma ca tenite?
Don Pasquale… oddio accurrite!
Nina, Antò, Lucia, venite…
nun respira, ‘un parla cchiù”.
Va pensanno, arrecurdanno.
Chiano chiano e ‘un saglie cchiù.
Mò Pasquale sta int’o viento,
da Toledo saglie su.
Tutt''e llacreme chiagnute
s’è scurdate. Nulla cchiù.
Va pensanno, arrecurdanno.
Chiano chiano e ‘un saglie cchiù (a sfumare)
Non ci sarebbe qualche napoletanto di buon cuore che la possa sistemare?
RispondiEliminaPer lungo tempo mi è capitato di addormentarmi durante gli esami, così profondamente da perdere la coscienza del luogo e del tempo in cui mi trovavo. Il viso del candidato si dissolveva ma continuavo a sentire le sue parole, come una fune alla quale mi dovevo aggrappare per non sprofondare nel buio. Poi la fune cedeva e si disfaceva in mille frammenti. Se l’argomento dell’esame era musicale, quei frammenti erano terzine, quartine, accordi, abbellimenti, trilli, gruppetti, che vorticavano dentro la mia mente, ed io dovevo concentrarmi per non farli fuggire. Ma arrivava il momento in cui una volatina scappava via rumorosamente e mi sembrava che fosse la mia anima che fuggiva e prendeva le sembianze di Mozart, di Federico II, di Corelli o di un intera orchestra d’archi. Se mentre mi addormentavo tenevo una penna fra le mani, quella penna diventavo un pennello col quale dipingevo una pera, un sasso, un corbezzolo. Poi mi rendevo conto che la tela era uno specchio ed ero io quella pera, quel sasso, quel corbezzolo.
RispondiEliminaSpesso la mia collega cercava di svegliarmi toccandomi una mano sotto la cattedra, o pestandomi un piede, e quella pressione diventava la carezza di una donna meravigliosa, la donna che avevo sempre sognato e cercato. Allora l’oggetto che stavo dipingendo, il candelabro, l’aspirapolvere, l’orologio a cucù, pur senza perdere le loro originali sembianze assorbivano lo spirito di quella presenza femminile. A un certo punto le immagini del sogno cominciavano a precipitare, come dei sali disciolti in una soluzione per effetto di una qualche reazione chimica e la realtà si rimaterializzava a poco a poco a miei sensi. Occorreva ancora del tempo perchè potessi ritrovare le coordinate in cui porre coerentemente me stesso e gli oggetti attorno a me, dovevo passare attraverso molti tentativi ed errori, vagare ancora lungo distanze di secoli e di migliaia di chilometri. Ma anche quando le cose attorno a me avevano già totalmente riconquistato il dominio dei miei sensi ed ero ridiventato completamente consapevole di dove si trovava il mio corpo e del tempo che stavo vivendo, così come restava il segno della dita sulle mie gote, ancora quel contatto restava impresso nel mio animo. Ero tutto preso dalla nostalgia della donna amata e la cosa più importante per me, il compito della mia esistenza, la vera ragione del mio futuro, era la ricerca di quell’anima meravigliosa.
ma tu pilon cavvuoi da me
RispondiEliminaVivement Marcel...!
RispondiEliminaMa non eravate tutti a una festa e cotti dalle nove!? Ao', non sta bene ingannare i lettori. Poi c'incazziamo e ce ne andiamo! A.
RispondiEliminaBravo Pilon, leggo solo adesso perché ieri ho avuto ospiti, uno a un certo punto è sparito, si è rinchiuso nel mio studio a scrivere il controromanzo di oggi, credo il più bello scritto finora, bravo Ged, comunque di napoletani che possono correggere la canzone ne conosco a decine, una poi è molto brava (prometto appena ho tempo di scrivere la musica, oggi no, c'è la festa elle vecchie)
RispondiEliminaE.
prova
RispondiEliminaprovaci ancora Ged
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