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lunedì 4 giugno 2012

SU FOGU capitoli quaranta e quarant'uno

quella gran bottanica di M. Fresi 
copertina tratta da un suggerimento dell'autore

 40. Mi risvegliai con un'emicrania infernale. Avevo bevuto decisamente troppo. Chiamai Giuseppe, che accusava anche lui sintomi classici, e gli comunicai che sarei andato a chiedere a Deidda una sua opinione sui tempi dell'incendio: in fondo era plausibile che avessimo archiviato gli orari, con un automatismo mentale che spesso decide la sorte di ogni dato acquisito nelle fasi iniziali di un'indagine. Spalancai le persiane per contemplare uno spettacolo abbastanza prevedibile: un cielo fosco, coperto di nuvole compatte, tagliate all'orizzonte da un sipario liscio e nero, foriero di temporali: l'estate stava finendo. Mi venne in mente Marta, per attinenza irrispettosa con le indimenticabili (ma meno dolorose) conclusioni delle avventure estive della mia adolescenza. Quando il tempo "si rompeva" le bionde valchirie del Continente, così care al nostro cuore irsuto di sardi, se ne partivano tra lacrime e promesse mai mantenute.
Preparai una caffettiera da tre, la misi sul gas e andai a fare la doccia. Poi pulii il caffé che si era versato e uscii di casa, di pessimo umore e senza sbarbarmi. Accompagnato dal rimbombo ancora lontano dei tuoni, mi avviai a piedi verso la caserma dei Vigili del Fuoco, trascinandomi dietro pensieri più cupi di quella giornata. Mi chiedevo cosa fosse quella pulsione, quel continuo tornare dell'immagine di Marta, che stava intralciando ogni passo del mio già zoppicante incedere mentale. Me lo chiedevo pur sapendolo, e pur sapendo che un cervello come il mio, impacciato dal ritegno e dalla pigrizia sentimentale, si può porre soltanto domande retoriche. E non vuole risposte.
Entrai in un bar e ordinai un caffé. Mentre bevevo, lentamente, provai ad addentrarmi nel terreno più proibito: tentai la proiezione ipotetica di due futuri paralleli, uno con Marta ed l'altro senza. Sentii bruciare il senso di vergogna, quasi avessi infranto la cupoletta di buon senso che mi avvolgeva. Passai rapidamente ad altro.
Quando mi rimisi in cammino, il maestrale si era aperto un varco nella barriera di nuvole. Il temporale, per ora, sembrava scongiurato. Arrivai in cinque minuti, camminando speditamente. Trovai solo Fadda, che mi comunicò subito che Deidda aveva preso qualche giorno di vacanza, fino al lunedì successivo. Provai a chiedere a lui, ma ebbi solo la conferma di quanto sapevo già: i tempi erano quelli, mezz'ora più mezz'ora meno, ma quando quel tipo di vento soffia su un incendio lascia pochi margini di incertezza.
All'uscita il mio umore non era migliorato. Davanti alla caserma c'è un grande spiazzo, in buona parte non asfaltato, dove dei bambini, in costume da bagno e maglietta, stavano giocando. Avevano piantato tanti rametti, uno vicino all'altro su un cumulo di sabbia da costruzione in modo da formare un bosco in miniatura. Ora gli stavano dando fuoco, e mentre qualcuno simulava grida disperate, altri si preparavano, con secchielli e palloncini pieni d'acqua, a domare le fiamme. Considerai per un attimo l'ovvia attinenza dei giochi infantili con il mondo che li circonda ma subito dopo fui colpito dalle loro grida. I più piccoli, che recitavano la parte della popolazione terrorizzata, urlavano:
- Lu focu, lu focu! - cioè "il fuoco, il fuoco", senza calcare sulle doppie, anzi quasi aspirando le "f" e le "c" e con le "o" larghe, piane e dolci del dialetto gallurese. Cazzo! Il caso era risolto.

41. Rimasi fermo in piedi dinanzi ai bambini, e passai in rassegna, con una rapidità quasi dolorosa e la sensazione di vedermi pensare dall'esterno, tutto ciò che finalmente avevo capito. Non posso dire che fu tutto chiaro e subito, ma certo il quadro generale l'avevo ormai intuito. Passarono tre minuti. Forse ne passarono altri due: dovevo anche decidere come comportarmi. I bambini avevano interrotto le loro attività e adesso mi guardavano in silenzio. Me ne accorsi, li esortai a non fare certi giochi pericolosi, poi voltai le spalle e tornai in caserma: tanto valeva iniziare dal luogo dove mi trovavo.
Ritrovai Fadda e lo convinsi a uscire con me. Mentre attraversavamo lo spiazzo, diretti verso un bar, cercavo di mettere insieme una qualche strategia d'approccio: mi servivano subito alcune informazioni, ma volevo dargli l'impressione di essere soltanto in cerca di chiacchiere. Niente mi costringeva a fingere, ma qualcosa mi diceva che era meglio così.
- Questo incendio non mi fa proprio dormire, sa? sono giorni che ci penso e ci ripenso, faccio schemini, rileggo verbali. Adesso quest'idea degli orari mi stava facendo diventare matto. - Feci una pausa, come se cercassi le parole. - Dev'essere una caratteristica di questa indagine.
- Cosa?
- Non farmi dormire. Sa come sono iniziate le indagini? Avevo appena chiuso gli occhi, la notte dell'incendio, e non era stato affatto facile: avrò dormito mezz'ora, non di più, quando un grido da forsennato mi ha buttato giù dal letto.
- Sì, anch'io l'ho sentito: tremendo.
- Cos'ha sentito?
- Un uomo. Urlava: "su fogu, su fogu", con una voce da fare venire i brividi, come se lo stessero scuoiando.
- Già, urlava su fogu. Che cosa strana.
- Come strana? se c'è un incendio uno grida "al fuoco", non le pare?
- Be', sì, però, come dire... lei, ad esempio, cosa urlerebbe? ma senza pensarci su: vede un fuoco enorme e deve correre a dare l'allarme. Cosa urla?
- Al fuoco, al fuoco!
- Ho detto: senza pensarci. Magari urlerebbe in dialetto.
- Ah, già: "lu foggu, lu foggu"! così urlerei.
- Vede! Lei è di Sorso, vero? e dunque urlerebbe "lu foggu"; anch'io, che sono di Sassari, urlerei così. Un gallurese, invece, direbbe... come direbbe?
- "Lu focu, lu focu ". - Imitò sorridendo il parlato gentile del gallurese.
- Vede che ho ragione io: è una cosa strana. In un paese dove tutti parlano il gallurese, tranne me e il mio compaesano Fadda Gavino, qui presente, qualcuno dà l'allarme usando il sardo: "su fogu". Non saprei esattamente sardo di dove, ma comunque dell'interno, o del Sud: l'intonazione, i vocaboli, l'articolo su invece di lu. Bah! - Finsi di essermi stufato dell'argomento. - Comunque l'hanno svegliata anche a lei, quella notte?
- Sì, ero a casa, stanco come un cavallo.
- Dove abita?
- Ma come dove abito?
- Cosa ho detto di male?
- No, niente di male, si immagini, - sembrava deluso e un po' vergognoso, - solo che pensavo che lo sapesse: abitiamo sulla stessa piazza. Casa mia è quella all'angolo del tabaccaio.
- Ma guarda! Mai saputo. Non ci siamo incontrati neppure una volta, in piazza, altrimenti lo saprei. Rimedieremo con una bevuta. Stava dicendo?
- Ero a casa, a dormire, quando sento l'urlo. Mi sono messo la divisa e sono venuto in Caserma.
- E il capo già lo sapeva.
- No. Ho incontrato Salvatore lungo la strada, mi ha dato un passaggio.
- Deidda?
- Sì.
- …che aveva sentito la segnalazione del peschereccio algherese dalla radio della macchina. O no, forse no: mi ha detto che la segnalazione è venuta in seguito, alle tre. O mi sbaglio?
- Adesso mi sta facendo incasinare anche a me. Aspetti un momento. - Si portò la mano alla fronte, accentuando molto il gesto. - No: Salvatore mi ha detto che anche lui aveva sentito il grido...
- E dove abita?
- In fondo al paese, vicino al Consorzio Agrario.
- Ha fatto un bel giro, il nostro urlatore.
- Un bel giro davvero! Poi siamo entrati in Caserma e abbiamo dato il preallarme. Ma non sapevamo dov'era.
- Chi?
- Il fuoco.
- Ah, già: e allora?
- Ci hanno portato il messaggio del peschereccio algherese, che segnalava le fiamme.
- Provvidenziale!
- Proprio così! Salvatore l'ha letto, ha guardato la mappa e poi ha mandato l'elicottero verso Cala Veronese. Dopo nemmeno dieci minuti eravamo tutti pronti a partire.
- E il messaggio cosa diceva?
- Siamo la "Stella del Nord" eccetera, incrociamo qui e là, a tanti gradi non so cosa, vediamo un incendio non so come, eccetera eccetera.
- Non è molto chiaro.
- Ma io non l'ho neppure visto: stavo facendo il verso ad un messaggio standard, di quelli che riceviamo sempre. Lo vuole vedere?
- Il messaggio standard?
- No, quello di Cala Veronese.
- Mi farebbe piacere.
Gli ci vollero pochi minuti. Me ne andai con una preziosa fotocopia nel taschino della camicia.  

36 commenti:

  1. Gedeone non c'è perché ha da fare con le bionde valchirie del Continente, quindi non seccatelo più

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  2. amo i sardi coi polpacci glabri

    Samantha (una valchiria)

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  3. amo Ged per la calvizie

    Deborah (un'altra valchiria)

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  4. amo Ged perché è poeta

    Samantha (terza valchiria)

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  5. la prima Samantha di cognome fa De Rossi, la seconda (terza valchiria) fa Coppa

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  6. a me di Ged piace la modestia

    Noemi (quarta valchiria)

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  7. a me la verecondia

    Samantha Coppa

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  8. è proprio vero, Ged non vuole mai offendere il senso del pudore
    Samantha De Rossi

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  9. a me di Ged piacciono gli occhi pensosi

    Poppea (quinta valchiria)

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  10. a me le ascelle incremate

    Vanda (sesta valchiria)

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  11. a me di Ged piace Roscia
    Emilia

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  12. a me Ged manca
    Pilon

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  13. l'ho già detto, è occupato con le bionde valchirie del Continente, non seccatelo

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  14. a me Ged piace per l'alterigia
    Roscia

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  15. a me per la superbia
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  16. a me per la solerzia nel risolvere i problemi del motore della sua barca

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  17. a me non piace che latiti

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  18. si meriterebbe un sacco di legnate

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  19. io mi chiamo luigi e lasciatemi in pace valchirie tentatrici

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  20. Ged è una persona sgradevole

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  21. uno specchio per le allodole a dirla tutta

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  22. alla spiaggia si mangia lo yogurt dei figli, dimmi te

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  23. pensa solo a se stesso e alle valchirie, che schifo

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  24. che c'è di male a pensare alle valchirie

    le valchirie

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  25. e a ses stesso?

    Ged

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  26. adesso basta prendetevela con Enrico C.

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  27. Oggi enrico non aveva proprio nulla da fare, beato lui!
    Enrico C.
    (A cui non piace essere messo in mezzo, e tantomeno da enrico con la e minuscola)

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  28. enrico!!! finalmente!
    Roscia

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  29. a me di Ged non piace la cupidigia

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  30. a me di Ged non piace l'alterigia

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  31. a me la loquacia

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  32. hai ragione, è logorroico

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  33. parla, parla, parla, non sa fare altro

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  34. proprio così, pensa che la figlia ha dovuto cambiare città, non sopportava i continui monologhi, e la moglie sta sempre in ufficio, anche se non ha niente da fare, il figlio più piccolo poveraccio se lo deve sopportare tutto il santo giorno, e lui parla, parla, parla

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  35. Controgiallo

    Dopo un tot entra Boris con la sua adorata bàryšnja.
    “Ecco Ludmilla, la mia bàryšnja… Ludmilla ti presento Ciocci, Paolino, Greta, Angela Quiete, Mustafà, Marcolino e Mariuccia, i miei amici italiani”
    “Menya zavout Ludmilla”
    “Zdravstvujte, Menya zavout Antonio Ciocci”
    “Privet”
    “Menya zavout Paolino”
    “Zdravstvujte”
    “Menya zavout Greta”
    “Privet”
    “Menya zavout Angela Quiete”
    “Privet”
    “Menya zavout Mustafà”
    “Zdravstvujte”
    “Menya zavout Marcolino””
    “Zdravstvujte”
    “Ya ne panimayu tebia, k sozhaleniyu, ya poka ne govoryu po russki, menya zavout Mariuccia”
    “Privet Mariuccia, kak vashi dela?”
    “Harosho, spasiba”
    “Ochen rad chto u tebya vsyo khorosho”
    “Spasiba”
    “Zhelayu vsego khoroshego”
    “Spasiba, Ludmilla”
    “Mne by khotelos uznat o tebe pobolshe”
    “Ti takaya dobraya”
    “Schast'ya i zdorov'ya”
    “Rasiya zamichatel naya strana”
    “Ma che dici”, chiede Paolino a Mariuccia.
    “Che la Russia è un paese straordinario”
    “Sai bene il russo?”, le chiede Ciocci.
    “Sono russa, Natacha è mia sorella”

    Pavel

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  36. vedo che la copertina suggeritami da Pilon ha avuto un grande successo, che valchiria volete nella prossima?

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