quella gran bottanica di M. Fresi
copertina tratta da un suggerimento dell'autore
40. Mi risvegliai con un'emicrania infernale. Avevo bevuto
decisamente troppo. Chiamai Giuseppe, che accusava anche lui sintomi
classici, e gli comunicai che sarei andato a chiedere a Deidda una
sua opinione sui tempi dell'incendio: in fondo era plausibile che
avessimo archiviato gli orari, con un automatismo mentale che spesso
decide la sorte di ogni dato acquisito nelle fasi iniziali di
un'indagine. Spalancai le persiane per contemplare uno spettacolo
abbastanza prevedibile: un cielo fosco, coperto di nuvole compatte,
tagliate all'orizzonte da un sipario liscio e nero, foriero di
temporali: l'estate stava finendo. Mi venne in mente Marta, per
attinenza irrispettosa con le indimenticabili (ma meno dolorose)
conclusioni delle avventure estive della mia adolescenza. Quando il
tempo "si rompeva" le bionde valchirie del Continente, così
care al nostro cuore irsuto di sardi, se ne partivano tra lacrime e
promesse mai mantenute.
Preparai una caffettiera da tre, la misi sul gas e andai a fare la
doccia. Poi pulii il caffé che si era versato e uscii di casa, di
pessimo umore e senza sbarbarmi. Accompagnato dal rimbombo ancora
lontano dei tuoni, mi avviai a piedi verso la caserma dei Vigili del
Fuoco, trascinandomi dietro pensieri più cupi di quella giornata. Mi
chiedevo cosa fosse quella pulsione, quel continuo tornare
dell'immagine di Marta, che stava intralciando ogni passo del mio già
zoppicante incedere mentale. Me lo chiedevo pur sapendolo, e pur
sapendo che un cervello come il mio, impacciato dal ritegno e dalla
pigrizia sentimentale, si può porre soltanto domande retoriche. E
non vuole risposte.
Entrai in un bar e ordinai un caffé. Mentre bevevo, lentamente,
provai ad addentrarmi nel terreno più proibito: tentai la proiezione
ipotetica di due futuri paralleli, uno con Marta ed l'altro senza.
Sentii bruciare il senso di vergogna, quasi avessi infranto la
cupoletta di buon senso che mi avvolgeva. Passai rapidamente ad
altro.
Quando mi rimisi in cammino, il maestrale si era aperto un varco
nella barriera di nuvole. Il temporale, per ora, sembrava
scongiurato. Arrivai in cinque minuti, camminando speditamente.
Trovai solo Fadda, che mi comunicò subito che Deidda aveva preso
qualche giorno di vacanza, fino al lunedì successivo. Provai a
chiedere a lui, ma ebbi solo la conferma di quanto sapevo già: i
tempi erano quelli, mezz'ora più mezz'ora meno, ma quando quel tipo
di vento soffia su un incendio lascia pochi margini di incertezza.
All'uscita il mio umore non era migliorato. Davanti alla caserma c'è
un grande spiazzo, in buona parte non asfaltato, dove dei bambini, in
costume da bagno e maglietta, stavano giocando. Avevano piantato
tanti rametti, uno vicino all'altro su un cumulo di sabbia da
costruzione in modo da formare un bosco in miniatura. Ora gli stavano
dando fuoco, e mentre qualcuno simulava grida disperate, altri si
preparavano, con secchielli e palloncini pieni d'acqua, a domare le
fiamme. Considerai per un attimo l'ovvia attinenza dei giochi
infantili con il mondo che li circonda ma subito dopo fui colpito
dalle loro grida. I più piccoli, che recitavano la parte della
popolazione terrorizzata, urlavano:
- Lu focu, lu focu! - cioè "il fuoco, il fuoco",
senza calcare sulle doppie, anzi quasi aspirando le "f" e
le "c" e con le "o" larghe, piane e dolci del
dialetto gallurese. Cazzo! Il caso era risolto.
41. Rimasi fermo in piedi dinanzi ai bambini, e passai in rassegna,
con una rapidità quasi dolorosa e la sensazione di vedermi pensare
dall'esterno, tutto ciò che finalmente avevo capito. Non posso dire
che fu tutto chiaro e subito, ma certo il quadro generale l'avevo
ormai intuito. Passarono tre minuti. Forse ne passarono altri due:
dovevo anche decidere come comportarmi. I bambini avevano interrotto
le loro attività e adesso mi guardavano in silenzio. Me ne accorsi,
li esortai a non fare certi giochi pericolosi, poi voltai le spalle e
tornai in caserma: tanto valeva iniziare dal luogo dove mi trovavo.
Ritrovai Fadda e lo convinsi a uscire con me. Mentre attraversavamo
lo spiazzo, diretti verso un bar, cercavo di mettere insieme una
qualche strategia d'approccio: mi servivano subito alcune
informazioni, ma volevo dargli l'impressione di essere soltanto in
cerca di chiacchiere. Niente mi costringeva a fingere, ma qualcosa mi
diceva che era meglio così.
- Questo incendio non mi fa proprio dormire, sa? sono giorni che ci
penso e ci ripenso, faccio schemini, rileggo verbali. Adesso
quest'idea degli orari mi stava facendo diventare matto. - Feci una
pausa, come se cercassi le parole. - Dev'essere una caratteristica di
questa indagine.
- Cosa?
- Non farmi dormire. Sa come sono iniziate le indagini? Avevo appena
chiuso gli occhi, la notte dell'incendio, e non era stato affatto
facile: avrò dormito mezz'ora, non di più, quando un grido da
forsennato mi ha buttato giù dal letto.
- Sì, anch'io l'ho sentito: tremendo.
- Cos'ha sentito?
- Un uomo. Urlava: "su fogu, su fogu", con una voce
da fare venire i brividi, come se lo stessero scuoiando.
- Già, urlava su fogu. Che cosa strana.
- Come strana? se c'è un incendio uno grida "al fuoco",
non le pare?
- Be', sì, però, come dire... lei, ad esempio, cosa urlerebbe? ma
senza pensarci su: vede un fuoco enorme e deve correre a dare
l'allarme. Cosa urla?
- Al fuoco, al fuoco!
- Ho detto: senza pensarci. Magari urlerebbe in dialetto.
- Ah, già: "lu foggu, lu foggu"! così urlerei.
- Vede! Lei è di Sorso, vero? e dunque urlerebbe "lu foggu";
anch'io, che sono di Sassari, urlerei così. Un gallurese, invece,
direbbe... come direbbe?
- "Lu focu, lu focu ". - Imitò sorridendo il
parlato gentile del gallurese.
- Vede che ho ragione io: è una cosa strana. In un paese dove tutti
parlano il gallurese, tranne me e il mio compaesano Fadda Gavino, qui
presente, qualcuno dà l'allarme usando il sardo: "su fogu".
Non saprei esattamente sardo di dove, ma comunque dell'interno, o del
Sud: l'intonazione, i vocaboli, l'articolo su invece di lu.
Bah! - Finsi di essermi stufato dell'argomento. - Comunque l'hanno
svegliata anche a lei, quella notte?
- Sì, ero a casa, stanco come un cavallo.
- Dove abita?
- Ma come dove abito?
- Cosa ho detto di male?
- No, niente di male, si immagini, - sembrava deluso e un po'
vergognoso, - solo che pensavo che lo sapesse: abitiamo sulla stessa
piazza. Casa mia è quella all'angolo del tabaccaio.
- Ma guarda! Mai saputo. Non ci siamo incontrati neppure una volta,
in piazza, altrimenti lo saprei. Rimedieremo con una bevuta. Stava
dicendo?
- Ero a casa, a dormire, quando sento l'urlo. Mi sono messo la divisa
e sono venuto in Caserma.
- E il capo già lo sapeva.
- No. Ho incontrato Salvatore lungo la strada, mi ha dato un
passaggio.
- Deidda?
- Sì.
- …che aveva sentito la segnalazione del peschereccio algherese
dalla radio della macchina. O no, forse no: mi ha detto che la
segnalazione è venuta in seguito, alle tre. O mi sbaglio?
- Adesso mi sta facendo incasinare anche a me. Aspetti un momento. -
Si portò la mano alla fronte, accentuando molto il gesto. - No:
Salvatore mi ha detto che anche lui aveva sentito il grido...
- E dove abita?
- In fondo al paese, vicino al Consorzio Agrario.
- Ha fatto un bel giro, il nostro urlatore.
- Un bel giro davvero! Poi siamo entrati in Caserma e abbiamo dato il
preallarme. Ma non sapevamo dov'era.
- Chi?
- Il fuoco.
- Ah, già: e allora?
- Ci hanno portato il messaggio del peschereccio algherese, che
segnalava le fiamme.
- Provvidenziale!
- Proprio così! Salvatore l'ha letto, ha guardato la mappa e poi ha
mandato l'elicottero verso Cala Veronese. Dopo nemmeno dieci minuti
eravamo tutti pronti a partire.
- E il messaggio cosa diceva?
- Siamo la "Stella del Nord" eccetera, incrociamo qui e là,
a tanti gradi non so cosa, vediamo un incendio non so come, eccetera
eccetera.
- Non è molto chiaro.
- Ma io non l'ho neppure visto: stavo facendo il verso ad un
messaggio standard, di quelli che riceviamo sempre. Lo vuole vedere?
- Il messaggio standard?
- No, quello di Cala Veronese.
- Mi farebbe piacere.
Gli ci vollero pochi minuti. Me ne andai con una preziosa fotocopia
nel taschino della camicia.
Gedeone non c'è perché ha da fare con le bionde valchirie del Continente, quindi non seccatelo più
RispondiEliminaamo i sardi coi polpacci glabri
RispondiEliminaSamantha (una valchiria)
amo Ged per la calvizie
RispondiEliminaDeborah (un'altra valchiria)
amo Ged perché è poeta
RispondiEliminaSamantha (terza valchiria)
la prima Samantha di cognome fa De Rossi, la seconda (terza valchiria) fa Coppa
RispondiEliminaa me di Ged piace la modestia
RispondiEliminaNoemi (quarta valchiria)
a me la verecondia
RispondiEliminaSamantha Coppa
è proprio vero, Ged non vuole mai offendere il senso del pudore
RispondiEliminaSamantha De Rossi
a me di Ged piacciono gli occhi pensosi
RispondiEliminaPoppea (quinta valchiria)
a me le ascelle incremate
RispondiEliminaVanda (sesta valchiria)
a me di Ged piace Roscia
RispondiEliminaEmilia
a me Ged manca
RispondiEliminaPilon
l'ho già detto, è occupato con le bionde valchirie del Continente, non seccatelo
RispondiEliminaa me Ged piace per l'alterigia
RispondiEliminaRoscia
a me per la superbia
RispondiEliminaSalva
a me per la solerzia nel risolvere i problemi del motore della sua barca
RispondiEliminaa me non piace che latiti
RispondiEliminasi meriterebbe un sacco di legnate
RispondiEliminaio mi chiamo luigi e lasciatemi in pace valchirie tentatrici
RispondiEliminaGed è una persona sgradevole
RispondiEliminauno specchio per le allodole a dirla tutta
RispondiEliminaalla spiaggia si mangia lo yogurt dei figli, dimmi te
RispondiEliminapensa solo a se stesso e alle valchirie, che schifo
RispondiEliminache c'è di male a pensare alle valchirie
RispondiEliminale valchirie
e a ses stesso?
RispondiEliminaGed
adesso basta prendetevela con Enrico C.
RispondiEliminaOggi enrico non aveva proprio nulla da fare, beato lui!
RispondiEliminaEnrico C.
(A cui non piace essere messo in mezzo, e tantomeno da enrico con la e minuscola)
enrico!!! finalmente!
RispondiEliminaRoscia
a me di Ged non piace la cupidigia
RispondiEliminaa me di Ged non piace l'alterigia
RispondiEliminaa me la loquacia
RispondiEliminahai ragione, è logorroico
RispondiEliminaparla, parla, parla, non sa fare altro
RispondiEliminaproprio così, pensa che la figlia ha dovuto cambiare città, non sopportava i continui monologhi, e la moglie sta sempre in ufficio, anche se non ha niente da fare, il figlio più piccolo poveraccio se lo deve sopportare tutto il santo giorno, e lui parla, parla, parla
RispondiEliminaControgiallo
RispondiEliminaDopo un tot entra Boris con la sua adorata bàryšnja.
“Ecco Ludmilla, la mia bàryšnja… Ludmilla ti presento Ciocci, Paolino, Greta, Angela Quiete, Mustafà, Marcolino e Mariuccia, i miei amici italiani”
“Menya zavout Ludmilla”
“Zdravstvujte, Menya zavout Antonio Ciocci”
“Privet”
“Menya zavout Paolino”
“Zdravstvujte”
“Menya zavout Greta”
“Privet”
“Menya zavout Angela Quiete”
“Privet”
“Menya zavout Mustafà”
“Zdravstvujte”
“Menya zavout Marcolino””
“Zdravstvujte”
“Ya ne panimayu tebia, k sozhaleniyu, ya poka ne govoryu po russki, menya zavout Mariuccia”
“Privet Mariuccia, kak vashi dela?”
“Harosho, spasiba”
“Ochen rad chto u tebya vsyo khorosho”
“Spasiba”
“Zhelayu vsego khoroshego”
“Spasiba, Ludmilla”
“Mne by khotelos uznat o tebe pobolshe”
“Ti takaya dobraya”
“Schast'ya i zdorov'ya”
“Rasiya zamichatel naya strana”
“Ma che dici”, chiede Paolino a Mariuccia.
“Che la Russia è un paese straordinario”
“Sai bene il russo?”, le chiede Ciocci.
“Sono russa, Natacha è mia sorella”
Pavel
vedo che la copertina suggeritami da Pilon ha avuto un grande successo, che valchiria volete nella prossima?
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