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domenica 29 aprile 2012

SU FOGU capitolo undici

                                    ho messo due capitoli perchè mi assentoper il ponte
                                       in copertina mauro e magadalena pilon 
11.
- Signor Duca, buongiorno! - il saluto, in tono di caloroso benvenuto, proveniva dal barone, comparso sulla soglia del terrazzo.
Per alzarmi ci misi una frazione di secondo più del dovuto: - Signor d'Elia, - il “barone” te lo scordi, bello - buongiorno a lei. Mi deve scusare per l'ora, inadatta alle visite.
- Ma le pare: per me è un grande onore averla in casa mia. Lei forse non sa che conoscevo suo padre: un gentiluomo e un grande cacciatore di cinghiali.
- Lo apprendo con piacere. Purtroppo la mia non è una visita di cortesia, - tirai fuori il tesserino di riconoscimento - ma di lavoro. Lei certo saprà dell'incendio della scorsa notte, visto che buona parte dei terreni colpiti sono di sua proprietà.
Il barone indossava una veste da camera di seta verde. Non molto alto, ma prestante, portava da ricco i suoi buoni sessanta: il viso abbronzato e accuratamente rasato, i capelli brizzolati alle tempie, le mani corte e tozze ma fresche di manicure, trasmettevano una sensazione, ma solo quella, di pacata signorilità. In spiacevole contrasto, uno sguardo trimalcionesco di un azzurro-grigio un po' velato, che tendeva inesorabilmente a eludere quello dell'interlocutore, come se il proprietario fosse conscio di non poterne nascondere il fondale melmoso. Alle mie parole si era voltato quasi di scatto verso la finestra, ma dalla rigidità del corpo e dalla freddezza della voce potevo apprezzare il risultato della mia piccola provocazione.
- Dunque lei fa il poliziotto. Cos'è, un hobby?
- Il mio hobby è l'idraulica da camera. Faccio il poliziotto di mestiere. Le dicevo del motivo della mia visita: avrà letto sui giornali che nell'incendio sono morte due persone e che quindi è stata aperta formalmente un'inchiesta. Ho avuto dal sostituto procuratore una piena delega, - recitai - al fine di accertare se esistano esecutori materiali, cioè incendiari volontari. In tal caso, ove possibile, ne dovrò perseguire le responsabilità penali a termine di legge.
- Credo di conoscere la procedura: sono anni che mi occupo di queste terre e purtroppo ho imparato anche a mie spese, come in questo caso, quali siano le conseguenze di un incendio. Lei sa indovinare, ad esempio, a quanto ammontano le perdite, quelle mie personali, conseguenti al disastro di ieri notte?
- É per questo che sono qui. Per accertare se vi siano perdite. Ma anche possibilità di guadagno.
- Non credo di aver capito - disse, rivolgendosi direttamente al pavimento, maiolica verde mar di Sardegna.
- Non è difficile: intendo dire che indagheremo sugli effetti che l'incendio avrà sulla salute delle sue tasche e, se ne scopriremo di positivi, non mancheremo di indagare sulle cause. Non so se mi sono spiegato meglio.
- Lei mi considera in qualche modo responsabile dell'accaduto? - Per un momento il suo sguardo si incontrò col mio, senza trasmettermi, devo ammettere, nemmeno un pochino di affetto.
- Ora mi fraintende, - in fondo mi era stata raccomandata un po' di diplomazia - dico solo che, visto che sono qui per una chiacchierata informale, mi verrebbe incon­tro se mi esponesse la tipologia dei danni da lei subiti, risparmiandomi in tal modo la noia di consultare piani regolatori e decreti di vincolo.
- Ora credo di aver capito. - Sembrava sollevato, ma davvero non ne aveva motivo. – Cosa crede? fino a qualche anno fa la sua domanda, non dico che mi avrebbe colto in fallo, ma mi avrebbe quantomeno imbarazzato. Lei queste cose me le insegna: prima che l'indice di fabbricabilità fosse abbattuto dal nuovo piano edilizio, il promontorio di Cala Veronese era una vera miniera d'oro. Ma Ercole D’Elia non è più quello di una volta e così non ho fatto in tempo a lottizzare. Qualcosa ce l’ho tirata fuori, ho venduto un pezzo di terreno, valutato ad agro, a quell'ingegnere milanese... Guidobaldi, Sinibaldi, ora non ricordo; comunque, per intenderci, è il padrone della villa "La Rotonda".
- Quella distrutta dall'incendio?
- Esatto, l'unica della zona. E poi, poi mi sono trovato con un pugno di mosche in mano. Detto inter nobis (sic!) - stavolta non solo mi guardò dritto negli occhi, ma accennò addirittura a un tetro sorriso di complicità - ero in trattative per disfarmi completamente dell'intero territorio: ora dovrò faticare, non crede, per piazzare sul mercato una tabula rasa ?
- Mi sta dicendo che, incendio o no, da quelle terre ci tira fuori poco o nulla?
- Prima poco, adesso quasi nulla. Con quegli indici ci avrei potuto costruire una villa, una sola e più bruttarella, come posizione e metratura, a "La Rotonda". Adesso non so proprio: se ne riparla fra due, tre anni. E poi, con i tempi che corrono, lei davvero mi viene a dire che crede ancora che i piani regolatori si cambino così - schioccò le dita - per un semplice falò di macchia mediterranea?
- Con le maniglie giuste ci sono buone possibilità.
Un fruscio sommesso ci interruppe: una fata avanzava veleggiando verso il centro del salotto, come sospinta da due genoa di cotone crudo cuciti a formare una sorta di copricostume generosamente aperto, dal quale fuoriuscivano gambe note­volissime. Sono un minuzioso catalogatore di gambe femminili: queste erano del tipo "a rotula triangolare", con caviglia nervosa, ammorbidite da un impercettibile rilassamento della pelle, dovuto all’età, difficilmente riproducibile in laboratorio.
- Ercole, caro, non è che si potrebbe uscire in barca? Hai visto che vento stupendo? - Non più giovanissima, ma certo molto più giovane del marito, la signora aveva capelli rossi, forse naturali, e un nasino dal taglio so­spetto. L'impressione generale era comunque gagliarda.
- Non mi presenti a questo tuo amico? - Anche da dietro le lenti azzurro pallido degli occhiali da sole griffati, lo sguardo della signora tradiva un certo interesse per la mia dimessa persona. Ma io sono sempre restio agli insoliti destini e agli azzurri mari d’agosto.
- Il commissario Fontana; mia moglie. - appena una stretta di mano e già uno sguardo eloquente del marito aveva convinto la baronessa a cambiare rotta, non senza aver prima ribadito, in tono petulante, l'assoluta necessità di una veleggiata e fatto balenare l'ipotesi di portare anche me. Il barone mi guardò perplesso, incerto se tener conto del mio ruolo acquisito o del mio rango ereditato: lo levai d'impiccio, concedendomi una ritirata strategica. D'altronde non c'era molto altro da dire.
- Non si disturbi, signor d'Elia. Non la voglio trattenere ancora né tantomeno imporle la mia presenza per un'intera giornata: lei è già stato molto cortese a ricevermi e a parlarmi così francamente.
- Come le ripeto, per me è stato un onore. Un dovere verso l'autorità e un piacere nel ritrovare il figlio di un vecchio conoscente. E poi, mi consenta di scherzarci sopra, ma in questa italietta repubblicana in fondo è un bel gusto essere in­terrogati da un duca! - Rise, un po' troppo sgangheratamente, ma forse era sollevato dalla rapida conclusione del colloquio. Finsi di apprezzare lo scherzo, e mi congedai. Tra me pensavo che avrebbe dovuto ringraziarla, questa italietta repubblicana: in altri tempi, molto remoti ma molto reali, un vero duca Fontana gliel'avrebbe tagliata quella sua testolina di minchia. Lo lasciai alla sua veleggiata, veleggiando anch'io, sospinto solo dal refolo della mia puzza al naso.

SU FOGU capitolo dieci


10.
Penso che nei bar di Porto Rotondo un addobbo para-natalizio sul bicchiere - qualsiasi cosa questo contenga - debba esserne considerato come corollario indispensabile. La mia granita al caffé, una volta raggiunta oltre bandierine e siepi di gadget, non era male, ma soprattutto con una mattinata come quella... un maestrale fresco e teso, la sua luce tersa, le otto di mattina e la piazzetta di Porto Rotondo tutta per me. Mi chiedevo dove fossero vacanzieri e VIP, forse a perdersi ore preziose dormendo o ammassati davanti all'unica edicola del paese. Sogno talvolta di presentarmi a turisti sconosciuti e renderli partecipi dei miei segreti luoghi. Prelevarli dalla spiaggia affollata, tra urla e racchettoni, o da una snervante attesa per vedere Paola Barale uscire dall’albergo e portarli veleggiando nelle calette più arcane, per vedere le loro facce, sentire i commenti a mezza voce, estasiarli con la mia isola. E magari si rompono le palle. Anzi, sicuro: altrimenti sarebbero già lì e non tutti all'edicola.
- Commissario: niente da fare - Pirro si era materializzato alle mie spalle. Per festeggiare quella mattina radiosa avevo indossato il mio vestito preferito, di cotone beige chiaro, e una camicia azzurro cupo, senza cravatta. Mi ero messo in eleganza, blanda, per fare una visitina al barone D'Elia, a contargli i cerini rimasti. Divertito della mia stessa idea, che consisteva essenzialmente nell'innervosire don Ercole mandandogli uno "scagnozzo" all'alba, mi ero portato dietro Pirro e lo avevo spedito in avanscoperta alla villa.
- Non ti ha ricevuto?
- No. Ho fatto il poliziotto proprio bene: ho esibito il tesserino e ho salutato portandomi due dita alla fronte. Quello, il cameriere ha fatto la faccia bianca, è andato di là e subito si è ripresentato, che il barone si è appena alzato e non riceve nessuno fino alle dieci.
- E noi lo inseriamo d’ufficio nell'annuario del Chi se ne fotte. Bene: adesso puoi tornarci con il biglietto. - Gli diedi uno dei miei cosiddetti biglietti da visita: me li aveva regalati mia madre per un compleanno di molti anni prima, un po' per sfottere ma secondo me neanche tanto. Sul cartoncino di un tenue color crema è stampigliato in seppia il mio nome, ma per intero, con tutti i titoli e i sottotitoli che mi competerebbero per nascita e censo se i bollettini di conto corrente che l'Istituto Araldico si ostina a spedirmi fossero pagati alla posta e non inseriti nei cassonetti. A dispetto di questa insolvenza cronica, il mio nome, su quei biglietti, è sormontato da una piccola ma ben visibile coroncina ducale, adatta, così almeno pensavo, a provo­care un po' il barone, che per di più, pare che il titolo se lo sia comprato. Ebbene, avevo colpito nel segno: esattamente otto minuti dopo ero comodamente seduto in una delle poltrone del salotto baronale

sabato 28 aprile 2012

SU FOGU capitolo nove



 9.
Una lunga facciata bianca in­terrotta parsimoniosamente solo da quattro finestre con persiane verdi, alte. Il portone grande, di legno di noce, a due battenti. E su tutta questa superficie candida non un capitello, né una losanga o un ghirigoro: soltanto due panchine in muratura ai lati del portone - qui le chiamano pidrizze - e una cert’aria da casa di maggiorenti del villaggio sottolineata dall'affaccio sulla piazza principale del paese. Ho comprato questa casa lo stesso anno in cui ho preso servizio in Polizia in uno dei centri più popolosi della Gallura costiera, sul limitare dei Monti di Mola, che poi sarebbero quel paradiso per ceti emergenti o già emersi, che oggi chiamano Costa Smeralda. Fare il poliziotto in Sardegna, almeno nelle commedie all'italiana, è la punizione per antonomasia (...ti sbatto in Sardegna). Effettivamente, anche se in una zona di consolidata residenza turistica, non è che si sta propriamente tranquilli. Ma per chi ci è nato... Queste baggianate me le ripetevo per farmi passare i nervi, mentre me ne stavo immerso nella mia bella vasca con idromassaggio. Sono nato tra gli agi e ci sono cresciuto, per un po'. Poi mi sono spartanizzato, sono diventato brutto, vecchio e antipatico. Vecchio no: ho l'età di Deidda, credo, ma lui sembra più giovane e bello. Io ho una faccia lunga e grosse sopracciglia e qualche volta i baffi (ma li taglio subito perché cerco di morderne le estremità e alla fine della giornata mi fanno male i muscoli delle labbra). Una volta qualcuno mi disse che ricordavo Elliot Gould, ma a quei tempi avevo ancora tanti ricci ed ero molto giovane. A Gould, poi, i capelli gli sono rimasti. E comunque: degli agi tra i quali sono cresciuto coltivo ancora solo quello della sala da bagno. Nella mia grande casa, per il resto quasi vuota, ho ricavato una specie di impianto termale unendo il bagno originale, una camera e un ripostiglio. Funziona tutto, benissimo in ogni stagione, grazie all'enorme cisterna di acqua piovana, preesistente al mio arrivo, che si estende sotto la casa. Funziona, poi, senza ingente spesa grazie all'impianto di riscaldamento a energia solare, cui ho provveduto di persona. Ho fatto anche un antibagno, con una libreria, due poltroncine di vimini e qualche pianta, diciamo così, tropicale. I miei soldi di famiglia, che non sono tanti ma vivo pur sempre da solo, e parte di quelli che mi passa lo Stato mi permettono di dedicarmi con maniacale pervicacia all'arte del ritocco, su un insieme che peraltro oserei definire perfetto.
Erano le nove di sera e mi sarei dovuto decidere ad andare a dormire: nel letto, magari, e non nella vasca. In tutta la giornata non mi ero concesso un attimo di sosta: avevo congedato la Fresi, pregandola di rifarsi viva l'indomani mattina. Al bar dell'Associazione Velica - le avevo proposto - e non in Questura, nella speranza che modificando la forma ci avrei guadagnato in sostanza. Poi la lunga, snervante e come sempre inutile riunione congiunta col vice questore (manco a dirlo, Er Sola nun era potuto venì), il sostituto procuratore, i co­mandanti dell'Arma e dei Vigili del fuoco, due assessori rincoglioniti e il sindaco. Costui, un rampantello neanche quarantenne che pure aveva attraversato incolume le prime due repubbliche e si preparava per le successive, dotato di una collezione di giacche a quadrettoni che avrebbero fatto inorridire anche un direttore di circo, era visibilmente sollevato perché i luoghi più esclusivi della Costa, come Romazzino o Liscia di Vacca, non erano stati neanche lambiti dalle fiamme. L'unica cosa che lo preoccupava, adesso, era che le nostre di­chiarazioni alla stampa fossero "coordinate nell'ambito di una linea d'azione congiunta, che tenga in debito conto la gravità della situazione ma anche gli interessi della popolazione". Dal puntuale rapporto di Deidda era emerso che la maggior parte delle terre bruciate appartenevano ad un'unica persona. Siccome conosco i miei polli, avevo proposto immediati accertamenti in merito, così da appurare se ci potessero essere "interessi della popolazione" nel liberare terreni da vincoli paesistici o nel rialzarne l'indice di edificabilità deturpandone il valore naturalistico. E così, ovviamente, sulla soglia il sindaco mi aveva preso sottobraccio, simulando una confidenza inesistente, e mi aveva pregato di occuparmi personalmente di quest'ultimo dettaglio, dato che il proprietario in questione, il barone d'Elia, era persona di riguardo, cui il nostro Comune doveva tanto. Ed essendo io, per lui, "uno che conosce il mondo, noi ci intendiamo, caro Fontana", mi si poteva chiedere un favore, in nome della "stretta comunanza di intenti che ha sempre improntato le rela­zioni tra rispettive strutture di appartenenza".
Una giornata orribile, con una sola nota di colore locale: il giardiniere della villa che mi si era presentato in questura vestito come un rapper: intanto portava scarpe da ginnastica rosse, di quelle erte che sono un misto tra un'astronave e un panettone; senza calze. Ma soprattutto si era procurato una di quelle magliette con su scritto a caratteri cubitali mens sana in corpore sardo, che quell'anno promuovevano la Sardegna in tono turistico-autonomista. Nome: Pirastru Antonino; età: anni settantasei. Di faccia era un misto tra Carlo d'Inghilterra e un cavallo (in sintesi sembrava un cavallo). Si dichiarò subito colpevole del mucchio di frasche, ma non dell'incendio. Proclamò (si era alzato in piedi e aveva messo la mano sul petto) di avere due alibi e cioè l'amore per la sua terra e la gelosia della moglie, che non lo lasciava uscire mai di notte. Quando gli domandai se nel lavoro di Cala Veronese lo aiutasse qualcuno, mi squadrò come a dire che-ti-credi-che-non-ce-la-faccio, ma ammise che, sì, un nipote ogni tanto gli dava una mano, ma era partito tre giorni prima, imbarcato come marinaio aggiunto su un duealberi francese. Prima che si allontanasse gli chiesi il nome dei proprietari della villa. Mi rispose: - Sinibaldi, se non sbaglio.
Alle sette e mezzo avevo i nervi ma anche, in tasca, un prezioso elenco che accarezzavo mentalmente mentre mi avviavo a piedi verso casa. Mi sento più tranquillo, quando faccio degli elenchini; mi dà piacere aggiornali eliminando le cose fatte con un sottile rigo di penna. Questo non era un granché, tuttavia era pur sempre il frutto degli ultimi sprazzi di lucidità, tutti tesi ad una sintetica ricapitolazione. Pressappoco recitava così:
- piromani: possibile
- incendiari casuali (turisti, campeggiatori ecc.): altamente improbabile
- incendiari interessati (tipo lavoratori a cottimo per il rimboschimento): poco probabile
- incendiari professionisti guidati:
a. dal barone: accertare
b. da altri, comunque interessati al terreno: accertare
c. da altri per interessi ancora ignoti (v. il cadavere nella villa)
- altro ancora, tutto da vedere (Marta Fresi???)
Il punto "c" di "incendiari professionisti" conteneva ovviamente la mia vaga ipotesi di un delitto, in connessione più o meno diretta con l'incendio. La vaghezza dei contorni, purtroppo, rispecchiava alla perfezione lo stato delle cose: il mio idromassaggio aveva aiutato il corpo, come si dice, ma non lo spirito. 

venerdì 27 aprile 2012

SU FOGU capitolo otto

avrei voluto mettere la foto di quella tipa col cappellino rosso a visiera che si era rimorchiata Enrico in discoteca ma purtroppo non ce l'ho da nessuna parte 
8.
Marta Fresi, la dottoressa Marta Fresi, era ridotta da far schifo ai cani. Portava in testa un cappello a visiera (di quelli, per intenderci, che farebbero sembrare cretino Einstein e brutta Sofia Loren) sotto il quale aveva tenuto al riparo i capelli, e ai piedi un paio di grossi anfibi militari. E questi erano gli unici capi del suo abbigliamento ad aver retto alla prova. Per il resto era innanzi tutto e in generale molto ma molto più lercia di noi, e poi aveva la camicia jeans con le maniche a brandelli e i pantaloni da lavoro blu di taglio maschile squarciati in vari punti e infangati fino alla cintola. Gli occhi rossi, le labbra screpolate, le mani sanguinanti. Non dormiva, così mi avrebbe rivelato in seguito, da almeno ventiquattro ore, e non mangiava da dodici. Era crollata sul sedile posteriore della macchina; Deidda aveva riacceso il motore per far funzionare l'aria condizionata; ma era rimasto fermo, versava il vino e preparava un panino per la dottoressa. Io mi ero seduto accanto a lei, e la guardavo, con evidente impazienza.
- La lasci respirare, commissario. - Ammonì Deidda, che si era fatto improvvisamente torvo.
- Ah, lei è un commissario? di Polizia? - articolò la Fresi, tra un boccone e l'altro,
- Sì.
- E perché non fa qualcosa? perché non impedisce questo scempio?
Deidda sbottò: - Col suo permesso ci proviamo: tutti gli anni e più volte l'anno. - Sembrava indispettito per la scarsa diplomazia della dottoressa.
- E lei chi è?
- Io sono il comandante dei Vigili del fuoco.
- Braaavo! - fece il gesto di applaudire, così che dalla spianata le caddero in grembo due fette di salsiccia - complimenti anche a lei!
- Signorina, perché non finisce di mangiare, si dà una calmata e ci racconta la sua storia? Dal principio? - interruppi il battibecco, questa volta con il piglio del detective da serial televisivo. Cafone comunque: lo so, mamma. La ragazza - senza il berrettino cretino sembrava giovanissima, i capelli raccolti in una coda - ammutolì di colpo come se avesse preso contatto, all'improvviso, con la realtà. Approfittai del temporaneo successo per offrire a tutti il caffè di Deidda: accettai solo io.
- Possiamo andare adesso, parleremo lungo la strada.
- "Possiamo andare" dove, Fontana? - Deidda virgolettava, scontrosetto.
- Mi scusi, Salvatore: credo che, se lei è d'accordo, potremmo finire il nostro giro e magari ripassare alla villa. Da lì, nel caso lei debba tornare verso il paese e fosse così gentile da darci un passaggio, potremmo caricare anche Pirro e andare tutti insieme. In caso contrario prenderò una delle nostre macchine, sperando che qualcuno si sia degnato di inviarcele. - Partì, e anche la sua schiena mi parve scorbutica.
Stavamo percorrendo un tratto di strada asfaltata che aveva retto bene agli assalti del fuoco. Nella speranza che il cibo e il fresco avessero allentato la tensione della nostra ospite, cominciai con garbo a farle qualche domanda, prendendola molto alla larga.
- Lei è qui per motivi di studio?
- Non studio, insegno.
Il tono non era amichevole: che la mia fosse una gaffe? la dottoressa Fresi si era offesa perché la scambiavo per una studentessa? tutto sommato, pensai, poteva anche passare per un complimento.
- Così giovane. - Rincarai la dose. Quella donna mi imbarazzava, non c'era dubbio. E Deidda, l'infame, taceva.
- Non sono giovane e sono ricercatrice all'Università di Roma.
- Bene! - battei le mani e me le sfregai, come un bottegaio alla cassa - allora: adesso sappiamo nome, età e professione. - Ero stufo del suo tono arrogante. - Ma, di grazia, dovrebbe favorirci qualcosa di più delle generalità. Ad esempio, - accelerai l'emissione delle parole, fino a restare quasi senza fiato, - cosa faceva in una zona controllata da polizia e carabinieri dove, da appena due ore, era stato appiccato un in­cendio? - e puntavo al sodo.
- Non mi dica che pensa che sia stata io. - Non sembrava molto spaventata. - È questo che pensa?
- Ma non diciamo ca... non dica eresie, dottoressa. Poi io non penso, faccio domande! - l'autolesionismo di certe formule è involontario, ma innegabile. - Perché non mi risponde?
- Se lei mi accusa di qualcosa, allora le risponderò quando avrò un avvocato.
- Mi ascolti bene, dottoressa, non facciamo i bambini ché queste sono cose serie. Cerchi di capire che non la sto accusando di nulla. Voglio solo sapere perché si trovava lì e da quanto tempo. Può essere una testimone, magari ha visto qualcosa, o qualcuno, che ci interessa.
Non andai molto avanti. Iniziò a guardare fisso verso il mare, ma credo non lo vedesse, e rispose (riassumo i suoi monosillabi) che non si ricordava da quanto tempo era lì e che era troppo stanca per spiegarmi il perché. Dopo qualche minuto scelsi la politica del silenzio, che mi sembrava bene accetta da tutta la comitiva L'incontro con la Fresi aveva fra l'altro spezzato la tensione che mi consentiva di concentrarmi. In compenso, chiudendo gli occhi rivedevo le immagini confuse del salone nero, ingombro di calcinacci e di frammenti di vetro, e di una inquietante padrona di casa, talmente compresa nel suo ruolo da affondare insieme alla villa come fa un capitano con la sua nave.
- Siamo arrivati.
Mi riscossi a fatica da quell'intorpidimento mentale. Marta Fresi dormiva e Deidda mi guardava con sufficienza. Scendemmo cercando di non sbattere gli sportelli e ci avviammo lentamente verso la villa.
- È una mia impressione, Salvatore, o la ragazza non le piace?
- Secondo me è una giornalista. Camuffata da universitaria. Li ha visti no? d'estate, quando hanno esaurito le altre notizie, quando si sono sparati anche gli ultimi consigli per sfuggire al caldo e alle punture delle vespe, allora iniziano. Vanno nelle zone a rischio e si eccitano anche se vedono un caminetto acceso. Vengono dopo gli incendi, o durante, a volte anche prima; poi chiedono in giro, scegliendo accuratamente le persone meno adatte. Il barista, il matto del villaggio, lo studioso di usi e costumi locali, ma soprattutto gli attori del cinema. La massima aspirazione, se ci sono, è chiedere un parere ai calciatori. Poi scrivono. O parlano. E la gente capisce solo che qui, contro gli incendi, non si fa nulla, che per noi sono una fatalità, come il vento o la grandine. E poi, bello in evidenza, ci mettono che in tutti i casi esiste una qualche convenienza trasversale per la gente del luogo e pericoli, pericoli enormi, per i turisti. Ho detto bene, o no?
- Ha detto bene, ha detto benissimo. Quello che non è vero è che la Fresi mente sul suo lavoro: mica è scema, lo sa che ci mettiamo cinque minuti a scoprire chi è una persona.
Restammo lì giusto il tempo per ascoltare la mesta relazione di Pirro: non c'erano tracce di nessun genere e il cadavere non era stato ancora rimosso. Er Sola sarebbe venuto nella sede distaccata alle quindici in punto («...magari famo tra le quindici e le quindici e quindici, o le sedici, Fontà, o, mejo ancora, le diciasette che così stamo più certi»). Riproposi a Deidda l'idea del passaggio e alle due eravamo in paese, con una dottoressa Fresi ancora profondamente addormentata.

giovedì 26 aprile 2012

SU FOGU capitolo sette


7.
La Range Rover aveva l'aria condizionata; c'erano due cannocchiali e un termos, questo di età contemporanea ma comunque pieno di caffè. Mi sentivo intontito e stanco, ed erano solo le otto.
- Si pigli anche la spianata, dottò, e la salsiccia, lì dietro, in quella busta bianca. E gusti un po' di vino, che la giornata è lunga e l'ossigeno non ce lo regalano, oggi.
- Grazie, Deidda. - Restai in silenzio, mangiando, bevendo e, per quanto possibile, pensando. - Ha visto il cadavere? a lei sembra normale che uno, anzi una, aspetti di essere arso vivo seduto sul sofà?
- Dice il morto nella villa?
- No, la morta nella villa. Chi era?
- Boh. Gente di fuori, continentali: di Milano, di Roma. La cosa più facile è che sia la proprietaria.
- Dunque: le sembra normale?
- Magari è svenuta. Oppure un infarto.
- Senta, io non sono un esperto di incendi, ma quanto ci mette il fuoco a percorrere sette, ottocento metri, quasi un chilometro? Di notte le fiamme si vedono bene, si sente l'odore. Anche se dormi, ti svegli. Da quel divano poteva avvistare un incendio in Corsica, eppure non è fuggita. Due macchine a disposizione all'aperto, pronte a partire. E comunque l'istinto è quello di ripararsi. Si ricorda di quella turista che si era salvata restando non so quante ore sotto la doccia, chiusa in bagno?
- Sì, l'abbiamo ritrovata noi: era un po' intirizzita, ma viva. Fortuna che avevano l'impianto fatto bene. Ma lei cosa pensa, che abbiano incendiato mezza Gallura per ammazzare una bella signora?
- Chi lo sa se era bella. Certo, potrebbe essere una coincidenza: delitto e fuoco insieme, casualmente. Ma potrebbero anche essere collegati. Provi a pensarci: la signora già morta viene bruciata...
- Si vede che è di cattivo umore, stamattina: si fa venire certe idee. Qui abbiamo minimo tre incendi per estate. L'anno scorso, due morti: un francese che fuggiva in moto nella direzione sbagliata e quel pastore che si è rotto la gamba saltando da una roccia di sette metri ed è stato raggiunto dal fuoco.
- E va bene, proprio per questo: questi che dice lei fuggivano, rischiando la vita da vivi e non morendo da morti.
- Commissà, un poeta è lei. Mangi ancora salsiccia, che ce n'è.
Mi sentivo meglio: la salsiccia e il vino di Deidda erano buoni e il climatizzatore funzionava a dovere. Scrutavo il tratto di territorio non bruciato con il potente binocolo da marina, facendo funzionare le braccia come ammortizzatori. Me lo aveva insegnato mio padre, a caccia. Non cercavamo nulla di speciale, ma la prassi vuole che si battano i perimetri delle aree incendiate perché si dice - e sembra sia vero - che quasi sempre i piromani tornino a vedere i risultati delle loro azioni. Proprio come gli assassini.
Alle nove e tre quarti avevamo quasi completato il circuito, costeggiando il mare per un breve tratto e poi addentrandoci in una campagna desolata. Avevamo incontrato i carabinieri, che pattugliavano le carreggiabili ancora a rischio: non avevano visto nessuno, evidentemente la notizia era circolata. Purtroppo, ci dissero, c'era un altro morto, un vecchio che dormiva in uno stazzo isolato, nel mezzo di un querceto.
- Un altro che muore da morto - commentò Deidda, pensando forse di risultare simpaticissimo. Non risposi perché come una folgore mi aveva attraversato la mente l'immagine della noia delle indagini congiunte e della caccia agli incendiari professionisti già schedati.
- Guardi là! - Deidda aveva frenato bruscamente, indicandomi una radura a due chilometri buoni da noi. Scendemmo dalla macchina e fummo investiti dal caldo infernale e dai vortici impazziti della cenere. I binocoli puntati, qualche secondo per mettere a fuoco una figura umana accovacciata e ripartimmo, sgommando sulle asperità del terreno. Diciamo che il fattore sorpresa non era alla base della nostra tattica di avvicinamento, quando, dopo aver rimbalzato lungo il pianoro che aveva la stessa copertura arborea di un asse da stiro, frenammo a pochi centimetri dalla schiena dell'uomo. Un'indelicatezza cui parve non dar peso; scesi cautamente e feci qualche passo. Non avevo armi, ma quella caccia al piromane non sembrava particolarmente pericolosa: in quanto a reazioni, il tizio restava granitico.
- Favorisca i documenti! - per carità, che questurino! Mia madre mi avrebbe ripudiato. Feci un altro passo e mi accorsi che non era un uomo ma un ragazzino. E singhiozzava.
- Che ti succede? hai qualcuno là in mezzo? - indicai la zona incendiata e, delicatamente, poggiai l'altra mano sulla sua spalla. Si voltò e sembrò finalmente vedermi. Due occhi neri, più profondi di un pozzo, mi guardavano tra ruscelli di lacrime e chili di fuliggine.
- Mi chiamo Fresi. Marta Fresi. E faccio la botanica.

mercoledì 25 aprile 2012

SU FOGU capitolo sei


 6. Fummo interrotti dal sopraggiungere di un carabiniere che annunciava l'arrivo, del tutto inatteso, di uno dei sostituti procuratori. Il questore è un rompiballe. Passi. Non solo, è un rompiballe romano, soprannominato da noi "Er Sola" perché non c'è volta che rispetti un appuntamento, si ricordi di una telefonata, si presenti all'ora stabilita. E passi. Ma pure il sostituto procuratore Giannatale, con l'alito fetente e la mano sudata, no! Poi se quella sensazione del cadavere rilassato, della stanza ordinata... Sentivo che le indagini potevano prendere una piega davvero balorda. Così mi avviai a piedi verso la villa, concentrandomi, come quando ero bambino, su un solo desiderio. Fui esaudito: la sagoma di Giuseppe Casula, piegata a settantacinque gradi dalla orizzontale del suolo e come sul punto di abbattersi su quest'ultimo (certo aiutata dal maestrale), si stagliava contro il nero delle rovine. Ti amo, pensai commosso. Saggio, come io immagino i saggi, profondamente saggio e sintetico fino alla ermeticità. Un genio. Gli andai incontro sfoderando un sorriso non proprio adatto alle circostanze.
- Ridi, ridi: sei contento? - brontolò a mo' di saluto, porgendomi la mano.
- Sono contento di vederti.
- Era chiaro. Cosa vuoi?
- Come fai a sapere che voglio qualcosa? E com'è che sei arrivato così presto?
- Sono io che faccio le domande, qui. Comunque: in primis quando mi hai visto mi sei corso incontro che nemmeno il fiume al mare, ergo vuoi qualcosa. In secundis: sono qui in vacanza, si fa per dire, e la mia casa di vacanza si trova a venti minuti di mac­hina da qui, che tra un po’ mi si bruciava; infine, quando si è sparsa la notizia dell'incendio ero già sveglio; se aggiungi che, appena arrivato, mi hanno comunicato che c'è scappato il morto e corredi il tutto con un dato che, se trascurato, inficia l'intera logica del discorso e cioè che di mestiere faccio il magistrato, puoi ritenerti soddisfatto.
- Molto soddisfatto. Vieni con me. - Lo condussi, recalcitrante per via dei calzoni di lino bianco che con infallibile senso dell'opportunità aveva pensato bene di indossare, fino al salone e gli mostrai la signora sul sofà. - A giudicare dalle scarpe sembra una donna: che ne pensi?
- Sì. E a giudicare dai muri questa poteva essere una casa. A che ora è  scoppiato l'incendio?
- Mi dicono prima delle tre. L'ora esatta non si sa.
- Dici che le fiamme l'hanno sorpresa nel sonno?
Che genio! - Anche a te fa una strana impressione, vero? Quello che mi ha stupito, appena entrato, è proprio la posizione. Non so se dormisse, certo può essere.
- Be', insomma, uno si sveglia, oh, con una puzza e un calore del genere, - roteò le mani con le palme aperte verso l'alto, mimando il divampare dell'incendio - però... magari il fuoco si è  sviluppato in casa.
- No: l'origine è lontana dalla casa. Escludiamolo.
- Suicidio?
- Suicidio. - Silenzio. - Ma scusa, sai: tu ci riusciresti, anche proprio al limite dei limiti, sull'orlo, anzi già dentro la più cupa disperazione, ad aspettare una morte atroce vedendola arrivare, nel silenzio notturno, guardandola negli occhi mentre piano piano ti brucia prima i piedi, poi le gambe...? mamma mia!... E chi è? un martire della Resistenza polacca. Un colpo apoplettico, te lo concedo, ma di solito ti prendono mentre stai scappando più lontano possibile. Correndo che lepre. Non mi convince. Piuttosto penserei a qualcosa di intenzionale, forse...
- Oh, santo cielo: per carità! adesso ho capito dove vai a parare. - Fece un cenno con la mano come per arginare insieme la mia requisitoria e l'idea che ci stava dietro. - Ma può essere, certo, può essere. - Casula ha l'abitudine di interrompere l'interlocutore, ma anche se stesso, per abbreviare i passaggi intuiti o, secondo lui, intuibili. Così, in pochi minuti ottenni una delega piena concernente tutte le attività di indagine, l'assicurazione che con Er Sola ci parlava lui e la richiesta, inoltrata via radio pompieristica ma dalla viva voce del magistrato competente, di un intervento immediato del medico legale.
- Fammi sapere tutto e sempre. - Si congedò.
Raggiunsi l'eterogeneo e tuttora sparuto gruppo di soccorso, feci un cenno di saluto a Pirro, saltai sull'auto di Deidda e cominciammo la perlustrazione.

martedì 24 aprile 2012

SU FOGU capitolo cinque

la copertina centra poco niente col romanzo ma è una scelta della casa editrice per aumentare le vendite 

5.
Attraversai rapidamente la cucina e un corridoio sul quale affacciavano quattro stanze con le porte bruciate. Mi premevo il fazzoletto sul viso perché l'odore di fumo era insopportabile. Il salone, una grande abside tutta vetrata - ma i vetri erano esplosi - aggettante rispetto al corpo della casa, non aveva più i tre quarti del tetto. Tutto ciò che si vedeva era nero e fradicio di acqua di mare sganciata dall'aereo. Ma c'era un inquietante senso di ordine, in quel marasma, come se l'incendio non avesse distrutto ma fissato, in un’istantanea, l’estremo istante di una scena di vita quotidiana. Il più quieto, poi, era il cadavere: adagiato su uno di quei divani in muratura che vanno di moda da queste parti, davanti alla vetrata, sembrava godersi in pace quel panorama di morte. Una donna, pensai, non tanto perché si capisse (di un morto carbonizzato a volte non si riconoscono neppure i tratti umani fondamentali), quanto per come stava seduta. Cercai di trovare un po' di ossigeno da inspirare e mi avvicinai. Una donna, certamente: quel che restava delle scarpe, un paio di sandali di cuoio, era di una misura troppo piccola per qualsiasi uomo. Provai pena, e agghiacciante disgusto.
- Dov'è Pirro, maledizione? - chiesi istericamente a Fadda, che mi guardò perplesso - Venga con me, usciamo dalla vetrata.
Incespicando nei resti di una siepe, i piedi affondati fino alle caviglie nella fanghiglia nera, mi fermai solo quando fui lontano da quel salone ingombro di macerie edili e umane. Respirai a fondo e abbracciai con lo sguardo il promontorio, che si stendeva davanti alla vetrata per un chilometro ancora: sembrava bruciato tutto, e poiché guardava dritto a nord-ovest, potevo escludere che l'incendio fosse iniziato dalla casa. Stavo per ritornare verso gli alpini, quando mi arrivò alle orecchie la voce di Pirro, smorzata dal vento.
- Giacomo, vieni qui. Qui, qui, davanti a te, - si sbracciava Nicola a circa cento metri dalla casa. Mi stavo muovendo per raggiungerlo quando vidi arrivare Deidda, ora alla guida di una Range Rover, che si fermò sobbalzando a pochi metri da me.
- Andiamo, Deidda, - ero salito al suo fianco - non mi sembra che l'origine dell'incendio sia nella villa: guardi qui è tutto bruciato. La sua ipotesi non regge.
- Non è un'ipotesi, lo ha segnalato un elicottero.
- Era la prima segnalazione?
- No, ci era già arrivato un messaggio, ma poco chiaro, da un peschereccio che incrociava in zona. L'elicottero è  stato mandato in seguito.
- A che ora? il messaggio, voglio dire.
- Non so, forse verso le due, le due e mezzo, ma le fiamme dovevano essere già alte, perché alle tre circa, quando siamo arrivati noi, il promontorio e tutte le tanche a sud stavano bruciando.
Nicola stava fermo ad aspettarci, con i pochi capelli tutti dritti e i pantaloni che garrivano.
- Cosa ti succede? Dove cazzo eri?
- Ho trovato l'origine: più in là, dietro le macerie di quel muro, c'è un cumulo di frasche bruciate mentre, verso la punta,  è ancora tutto verde.
Oltre i muri indicati da Pirro, un cumulo di frasche arse segnava il confine, se proprio vogliamo essere tragici, tra essere e non essere. In una ventina di metri il paesaggio riprendeva i suoi colori, e anche il suo profumo. Una rapida perlustrazione, che allo sguardo ceruleo quanto acuto di Deidda doveva avere fornito informazioni a me sfuggite, ci portò infine in una zona sufficientemente al coperto per riuscire a parlare senza sputarci in faccia per lo sforzo di farci sentire.
- Io - dissi, con una certa aria saputa che non me la sento di sopportare negli altri - scommetto quanto volete che su questo incendio... insomma, che non è come tutti gli altri. Voglio dire che vedrete se non ci darà filo da torcere. Comunque, prima di tutto cerchiamo di assumere più elementi possibile, finché la pista è calda. - Finsi signorilmente di non vedere i malcelati sorrisi per la pista "calda". - Se lei, Deidda, vuole fare il giro di perlustrazione sul perimetro dell'incendio, mi consideri parte dell'equipaggio. Pirro, tu resti qui e ti fai tutte le insenature, insieme ai carabinieri: è possibile che gli incendiari siano arrivati e fuggiti in barca. Vedi un po' cosa trovi. Deidda, ce l'ha una radio in macchina?
- Certo. E c'è un'altra radio nella macchina che guida Fadda - indicò il Troll.
- Bene! Allora, Nicola, chiama la Questura: avremo diritto ad un po' di rinforzi? Cosa pensano, che in quattro, più quattro carabinieri e il battaglione del Piave di là, dobbiamo domare un incendio, svolgere indagini, analizzare morti bruciati, arrestare, interrogare, guidare aeroplani? E che cazzo! Pirro, poi ancora: chiama la Procura e avverti che nell'incendio di Cala Veronese c'è scappato il morto e che ritengo si debba aprire un'inchiesta a latere. Senti anche se è possibile avere un medico legale e soprattutto un'autopsia attendibile su un cadavere completamente carbonizzato. Secondo, o terzo: trova il responsabile di quel cumulo di frasche. Il responsabile ufficiale. Se esiste, che ne so, il giardiniere, l'esperto di macchia mediterranea, l'architetto del paesaggio: in questa villa di sogno ci deve essere. Ci vediamo dopo. Ciao.
- Il giardiniere lo conosco io, ma non credo che possa entrarci, - disse Deidda - è un agente della Forestale in pensione che non va in giro a bruciare frasche alle tre di notte.
- Va bene. Allora niente. Anzi no, lo voglio vedere lo stesso. Tracce, tracce: bidoni, lattine, benzina, accendini, cerini, zolfanelli: tutto. In casa e fuori. A proposito, sei stato bravo a trovare l'origine. Cos'è stata, un'intuizione?
- Se te la devo dire tutta, bè, non è che non ci abbia pensato. Ma in realtà, tu lo sai... la macchina... la puzza. Stavo vomitando, insomma.
- E allora è stata una vittoria di Pirro! - disse il taciturno Fadda Gavino. Prima, allora, non era stato un caso: era spiritoso sul serio, nonché passabilmente colto.

lunedì 23 aprile 2012

COMUNICATO STAMPA

ricevo questo avviso da Pilon e ve lo giro 

"Il problema sono due: il primo che per mandare capitoli devo essere nel mio pc e non nell'i-pad. Il secondo che, rileggendo il romanzo, mi sono accorto che é molto brutto e mal scritto e, conseguentemente, lo riscrivo ogni volta. Le soluzioni sono una: adesso mi ci metto e mando un po' di capitoli insieme, così l'editore regola lui il deflusso in rete. Cordiali saluti. Frontino"

net log

sei stata brava Matisse, hai saputo tenere ordine e disciplina e sopratutto hai fatto rigare dritta quella indisciplinata di Emilia , per il sig. Enrico sappia che non necessariamente un  blog è triste ma da quel poco che si legge tra le righe di quel suo commento si capisce  che come blogger non avrebbe successo è troppo concentrato su se stesso, sulla sua pancia poi se vuole ho delle foto specifiche che potrei pubblicare se non arriva immediatamente un bonifico di duemila euri.
Comunque a Milano non ci abiterei mai troppa brutta gente troppi soldi che girano e troppe cose da vedere saranno stati 8 anni che non ci andavo al salone del mobile e adesso so che non ci tornerò più, i giovani sono carini ma hanno poco da dire anche loro, di buono c'è che sono stato tutto il giorno con una architetta ebrea di Telaviv conosciuta la sera prima , ma in fondo era come se ci conoscessimo da tanto... io le davo della tedesca per il suo accento e per l'ordine di circolazione impartito  all'interno dei padiglioni e lei rideva, ma non era molto contenta dell'appellativo, però era contenta perchè era molto meglio vedere le cose insieme e confrontarsi anche se con due parole, perfortuna mi sono rinfrancato nel museo del novecento nell'Arengario in piazza Duomo complice una bellissima luce primaverile.
bon basta con questo net-log, adesso altre pecore!

venerdì 20 aprile 2012

COMUNICATO STAMPA

Non ci sarò per due giorni vado al saloon
fate i bravi.
nomino Matisse a capoclasse per la lista dei buoni e i cattivi

giovedì 19 aprile 2012

SU FOGU capitoli tre e quattro

il vero unico romanzo di Mauro Pilon



III

La campagna dopo un incendio è forse la cosa più vicina al nulla che io conosca. Tra lacrime e tosse, mentre l'auto rollava lungo il pendio del bastione, riuscivo a scorgere vaste chiazze scure, vuote di tutto, che si allargavano tra la macchia gialla e verde: le ultime propaggini di un fuoco ormai svogliato, retroguardie inerti di fiam¬melle. Ma via via che si procedeva verso la costa la cenere vorti¬cava sempre più densa dentro la ca¬bina aperta del fuo¬ri¬strada, mentre perforavamo nuvole di fumo acre a cen¬toventi all'ora.

- È l'unico modo - aveva spiegato laconico il pom¬piere al volante, che poteva contare su due polsi che sembravano le mie cosce e, ma lo dico col senno di poi, sulla Provvidenza. Durante la corsa riuscii a scorgere: a) i pali di legno del telegrafo, cui il fuoco aveva bruciato la base, penzolanti dai loro fili; b) una casa iso¬lata, gri¬gia su nero; c) la sagoma funerea di un gi¬nepraio com¬busto, nera su nero. Rallentammo solo una volta ripresa la strada asfaltata, esattamente al bivio con la Provinciale, quando si inizia a costeggiare il mare: gli scogli non bru¬ciano. L'acqua vicino a riva ristagnava, malgrado il vento, coperta da una fitta coltre di polvere grigia, come lambita da onde petroli¬fere.

Un breve tratto in salita e poi, davanti a noi, si rivelò il disastro, quello grosso: una sterminata distesa nera, ettari e ettari bru¬ciati e, più lontano, ancora l'inquietante baluginare delle fiamme alte. Guardai sconsolato Pirro: neppure lo spesso strato di belletto fuligginoso riusciva a co¬prire il suo colo¬rito terreo. Forse era commosso o forse stava per vomitare; perché Nicola sof¬fre il mal d'auto, anche quando guida lui. Per giunta il pilota folle aveva di nuovo abbandonato la strada maestra, e intendeva convincere la macchina a inerpicarsi di¬ret¬tamente sulla roccia per raggiungere, tra sob¬balzi cugini primi del ribaltamento, il crinale del colle. In fondo, in una posizione che solo un giorno prima avrebbe dato pane per un secolo ai figli dei figli del più inetto dei mediatori della Costa Smeralda, apparve la sa¬goma della villa “con il morto dentro”.

- Rallenti, per cortesia: voglio dare un'occhiata in giro. - Dissi, poliziesco.

- Lì dobbiamo andare! - un indice teso (del tutto simile per colore, forma e proporzioni a un tizzone) in direzione della casa, stava sotto il mio naso a sottolineare l'ovvio quanto incongruo pronunciamento. Seguì, a onor del vero, un modesto calo dell'andatura, mentre Pirro sospirava, o rantolava, nel sedile posteriore.

- Chi c'è alla villa? - dissi, tanto per non lasciare intor¬pidire la conversazione.

- Alpini. - Silenzio.

- Come alpini? Quali alpini?

- I nomi non li so.

Non risi, e neppure sorrisi, perché sul momento non seppi valutare se il pompiere facesse lo spiritoso. Tuttavia, se c'è un dato certo è che si trattava della verità: una ventina di alpini, in divisa da lavoro, si dava da fare in¬torno alla villa, concentrando gli sforzi nello sgombero degli ac¬cessi. Come fossero capitati lì, resta, ad oggi, un mistero. Uno di loro, alto e sudicio, in ori¬gine probabilmente biondo, ci si parò da¬vanti, arrivando di corsa e scattando sugli attenti.




IV:

 Comodo, comodo - rispolveravo formulari '15-'18 - mi dica, piuttosto: quale la situazione? - e mi sfuggiva anche una leggera cadenza veneta.

- Abbiamo spento gli ultimi focolai; dentro, nella stanza più grande, c'è un cadavere. Carbonizzato, sior...

- Commissario Fontana. Avete toccato nulla?

- Nulla (nula), sior commissario, quando siamo arrivati c'e¬rano già i carabinieri. Ma non avremmo toccato nulla (nula) lo stesso.

- Si può entrare da quella porta? - indicai quello che presumevo essere l'ingresso principale.

- Nossignore, sior commissario. Ancora no. Conviene che passa da dietro. Ma è meglio che si porti an¬che il sior - fece cenno col mento verso il nostro autista che, una volta sceso dalla macchina si era rivelato alto, se così si può dire, non più di un metro e cinquanta - perché in casa non siamo ancora en¬trati: ci può es¬sere gas, o ancora fuoco, non so.

- Se non sa cosa c'è in casa, come fa a sapere che c'è un cada¬vere?

- Si vede dalla finestra: è steso sul divano.

Feci un cenno all'autista folle, che si era già armato di ascia e così sembrava proprio un Troll delle saghe norvegesi. Ci incammi¬nammo in fila indiana, l'alpino, io e il Troll, per quello che un tempo doveva essere stato un vialetto fiancheggiato da oleandri. Presi mentalmente nota di due auto semidistrutte dal fuoco, par¬cheggiate lungo la di¬scesa che conduceva ad un garage semin¬terrato: una grossa Volvo e una di quelle vec¬chie Çitroen da spiaggia, che mi pare si chiamino Mehari.

- Noi siamo entrati in bagno dalla finestra, ma quella è la porta di servizio, forse con l'ascia si potrebbe abbat¬tere. - Propose il giovane alpino

- Senta, - mi rivolsi al pompiere - mi dica il suo nome, per favore, e sfondi quella porta, per cortesia.

- Fadda Gavino.

- Sassarese! - t'ho beccato, compaesano! non tiravo ad indovinare: avevo riconosciuto l'accento.

- C'è andato vicino: di Sorso. - Finalmente un sorriso. Ma era già partito e dopo una breve rin¬corsa aveva scardinato, nel senso letterale del termine, il portoncino di noce. Con la spalla, non con l'ascia.

- Adesso si può entrare. - Disse Fadda, mentre il pomo d'adamo dell'alpino, prominente secondo tradizione, andava e tornava in segno di plateale ammirazione.

mercoledì 18 aprile 2012

suona sempre due volte


Il postino da me non suona entra e apre la porta che scricchiola malamente e dice sempre  ...architetto buongiorno la posta la metto li sul tavolo, ma lei conosce l'architetto S. sta un po più su in via Rossetti ...mmm no non mi viene in mente ... a perchè lui la conosce... si ma io sono famoso, (e cosi ridiamo)... ma lui non è come lei che c'ha trapani lamiere tubi, lui  lavora per le istituzioni ... aahhh allora c'ha i soldi ... e si c'ha i soldi ... e io,  io mi tengo la fama... arrivederci architetto ... arrivederci e grazie.


è la prima volta che ho un rapporto con il postino è la cosa più piacevole di questo nuovo studio 

martedì 17 aprile 2012

controromanzo" su fogu"


in copertina Tina Kooper



SEI
In camera da letto, sul comodino, il commissario trova un libro aperto a pagina 60:
Hesse Enza D.- Tremen Tina, Cento modi infallibili per uccidere la suocera, Ladispoli 2011.
- Perbacco, per la Tremen si mette male... vediamo un po'... pagina 60... "In casi veramente estremi, se si è disposti a sacrificare la propria abitazione, si può invitare la suocera a pranzo e dar fuoco alla casa..."
- È lei, la Tremen, dobbiamo trovarla, andiamo, presto
- Un momento Deidda, c'è puzza di bruciato
- Bè, certo, è bruciata la casa
- Intendevo dire che qualcosa non quadra, sembra che qualcuno, l'assassino, abbia voluto depistarci...

SETTE
. Il letto sembra un campo di battaglia, è sottosopra, ovunque macchie di liquido seminale, peli pubici e di polpaccio, sangue. Il commissario e Deidda lo osservano ben attenti a non toccare nulla.
"Conosco solo un uomo capace di sconvolgere un letto in questo modo, l'avvocato Apostolico"
"Lo stallone?"
"Proprio lui, c'è la sua firma"
"Dicono in paese che riesce ad avere cinquantuno rapporti completi senza perdere un colpo"
"Alla sua età è qualcosa da non credersi... era l'amante di Enza Hesse, la coautrice del libro... Deidda chiami subito la Centrale, dobbiamo trovarla"

OTTO. 
- Scusi commissario - fece Deidda - posso farle una domanda di carattere personale?
- Sentiamo - rispose Fontana.
- Mi sembrava che fosse lei in prima persona a raccontare la vicenda, come che adesso c'è questo narratore onnisciente?
- Mi congratulo con lei, Deidda, ci sa fare con tutto quello che scotta, compresa certa letteratura. Le dirò, è una mia tecnica di indagine, mi confondo con gli altri personaggi e aspetto che qualcuno si tradisca intervenendo al mio posto. In queste ultime righe, per esempio, mi sembra di aver colto uno stile avvocatesco.

NOVE
Ma ora basta, torniamo ai fatti, dal profumo di caffè bruciato deduco che fuori ci sia Pirro e che il suo passaggio attraverso l'incendio non sia stato facile.
. Il commissario Fontana, che sono io, diede un'ultima occhiata ai poveri resti di Angela Colofonia e con Deidde uscì dalla villa incontro a Pirro. Poco lontano era parcheggiata una Buick Enclave Luxuty Crossover appena uscita dalla fabbrica. Un tale leggeva il Los Angeles Time nell'abitacolo fumando un grosso Avana Partagas, era l'autista dell'avvocato Apostolico, un avanzo di galera che l'avvocato aveva tirato fuori corrompendo il giudice Minnisi. Il commissario Fontana, che sono io, mise le mani nella fondina e si preparò al peggio, con quello non c'era da scherzare.

lunedì 16 aprile 2012

SU FOGU capitoli uno e due


uno
 Su fogu...! - il grido aveva bucato la notte, spargendo un'eco di terrore ancestrale. - Su fogu...! - Dalla finestra, solo buio. Ancora l'urlo, maschile, profondo, paesano.
Non c'è terrore più devastante e cieco, una maledizione affilata. Su fogu, il fuoco, l'incendio. Non sai dov'è e, se mai finirà, quando. Puoi sapere che procede verso sud-est, perché il fuoco lo accendono quando da nord-ovest soffia il maestrale. Più che un vento, un'entità tangibile, forte, rabbiosa, ma incontenibilmente allegra quando sottolinea i contorni ai monti con luce tersa e te li mette lì, a portata di braccio. E fresco, se spazza il mare vicino a terra, con raffiche isteriche che fanno sull'acqua scuri e storti corridoi, o ventagli e curve che nascono e svaniscono. Fuori, invece, subito il mare si ingrossa. Ma non fa paura perché questa luce speciale lo ammansisce, agli occhi e non alla barca, in tempestina di ex voto. Tutto gli si può dire, al maestrale, meno che assassino.

DUE

 Albeggiava. Mentre l'enorme incendio devastava, sotto i nostri occhi impotenti, ettari di macchia mediterranea, guardavo Nicola Pirro, sovrintendente - ma lui dice "maresciallo" - lucano, sardo d'adozione, e me lo sentivo un poco somigliare. Lui stava seduto su un muro a secco, come me, e aveva pochi capelli e tanti pensieri, come me, e un termos anteguerra che teneva il caffé miracolosamente caldo, diverso da me.
Le ingenti forze impegnate in quel momento nella lotta alla piaga degli incendi erano, a quanto ne sapevo: un Canadair, in cielo; in terra io, Pirro e quattro carabinieri (dei quali uno, graduato, era impegnato a seguire col braccio alzato il volo dell’aeroplano, commentando coi sottoposti). Tutte le forze di terra avevano già usufruito del caffè di Pirro e i carabinieri si erano poi leggermente defilati, rosi dallo scrupolo di aver approfittato di vettovagliamenti della PS. Diciamo che attendevamo rinforzi, su quell'avamposto elevato, un bastione granitico spoglio e delimitato da muri a secco come una santuario arcaico, illuminato da una apocalittica luce rossastra, filtrata dal calore del fuoco e già gonfia di cenere
- Ecco i pompieri. Malanno! quella camionetta sale pure sugli scogli. 
- Vai, Nicò, a sentire cosa dicono. 
- Lo so cosa dicono: che non si sentono estranei all'idea di un caffè. 
- Andiamo insieme allora, così non si permettono. 
La jeep dei pompieri era ferma al margine del pia¬noro. L'uomo al volante, coi pantaloni della divisa e in maniche di camicia, aveva il volto completamente nero, ma zebrato da rivoli di sudore. Si spenzolava dallo sportello semiaperto con aria di cane ansioso, aspettando che arrivassimo a portata di voce. Pirro già pronto con termos e bicchierini di plastica, perché dice dice, ma alla fine va fiero che tutti si bevano il suo caffè . 
- Commissario, buongiorno. 
- Buongiorno a lei, Deidda. - Era il comandante dei Vigili del fuoco: un bono, come dicono le ragazzine. Un campidanese (o cagliaritano proprio, non so, comunque di giù) fresco di Gallura, per meriti di servizio. Occhi azzurri, fisico atletico, quarantacinque anni portati gratis da una ditta di trasporti. Capace di lavorare tutto il giorno tra le fiamme senza nemmeno farsi vento con la mano. 
- Allora? 
- Circoscritto prima della provinciale, a sud e a sud-est. Verso la Tanca di Li Lioni stiamo provando a fermarlo su una tagliafuoco. È un bene che siate qui. Andate subito a Cala Veronese: sul promontorio c'è una villa, dentro la villa c’è un morto. Penso che l'incendio si sia originato proprio in quel punto. Ci si arriva tagliando per i campi qui sotto, poi la costiera è quasi percorribile. Vi possono accompagnare i miei con la jeep: io vado con i carabinieri a prendere la mia macchina e vi raggiungo.
Bello, conciso, efficiente. Così mi piacciono i pompieri.


sabato 14 aprile 2012

venerdì 13 aprile 2012

COMUNICATO STAMPA



smettetela di fantasticare quest'avventura è finita è stato bello e divertente ma come tutte le cose e gli amori più intensi viene sempre il giorno in cui tutto finisce ... ecco quel giorno è arrivato e per favore vedete di non passare più da queste parti e 
lo dico soprattutto a quel branco di spagnoli petulanti, dimenticate l'indirizzo e ognuno per la sua strada.

in copertina Enrico con una  maschera di Ciocci , a Parigi nel lontano 1984

EPILOGO

Epilogo? Non credo, un epilogo è una cosa che viene dopo (epi) il discorso (logos), dovrei ricapitolare i punti principali e trarre le conclusioni, ma non lo faccio, voglio solo chiedere scusa. Innanzitutto perché le premesse sono state tradite, avrei dovuto scrivere un libro sulla metempsicosi, seppure in forma romanzata, con intreccio dialoghi eccetera, e invece mi è uscita una storia melensa a lieto fine, trita e ritrita, un tizio che perde la moglie e ne trova un’altra, da vergognarsi. Già per questo dovrei finire in galera o almeno alla gogna. Ma c’è di peggio e chi ha letto solo questo mio scritto certamente lo ignora.
Nel mio ultimo romanzo, il sesto da quando mi è venuta questa brutta malattia che mi costringe ogni mattina a scrivere almeno un capitolo di cose inutili (circa due cartelle), avevo giurato al lettore che non avrei più scritto una parola di fiction per il resto della mia vita, solo testi scientifici, solo roba seria (è il mio mestiere, so farlo). Il motivo è semplice: chi scrive storie inventa personaggi, è responsabile della loro vita come se fossero figli veri, solo che a un certo punto la storia finisce e pure loro finiscono, poveracci, alcuni dopo pochi giorni, altri dopo pochi istanti, perché ci sono sempre comparse che riempiono gli interstizi del racconto, creano colore, paesaggio. Se non ci sono lettori, come è capitato finora (li legge solo mia madre e qualche fratello), per loro è la fine, non esistono più. Quindi basta romanzi, così avevo scritto, basta mettere al mondo creature letterarie e poi abbandonarle per sempre tra le righe. E invece l’egoismo ancora una volta ha prevalso, non ho fatto a tempo a finire l’ultimo capitolo di Olmo Montano che già iniziavo il primo di Adesso altre pecore. Me ne vergogno e mi scuso, soprattutto con le due Adeline e gli amici di Ponte Sisto, il protagonista non ha un nome e forse si salverà. Non ne sono sicuro, e poi c’è il soprannome, Megliodigiotto, quindi non so. Lucie, povera Lucie, solo poche righe di vita e di nuovo nei meandri, perché?
Questa volta ho cercato di evitare il peggio con un espediente letterario tratto dalla tradizione orale, dalla fiaba, ho scritto e vissero sempre felici e contenti che in teoria dovrebbe allungargli la vita. Ma non mi illudo, serve solo a metter tranquilla la mia cattiva coscienza. L’unica vera soluzione per prolungargli la vita è che il libro diventi un best seller internazionale, sia letto da migliaia di persone facendo rivivere ogni volta ai protagonisti la loro storia d’amore. Ma non mi faccio illusioni, leggerà solo mamma, tra un mese leggerò io e poi fine del viaggio, i fratelli si sono stufati, dicono che scrivo troppo, non hanno tempo.
E vissero sempre felici e contenti si dice ai bambini per fargli credere che dopo va tutto bene, non ci saranno incidenti, malattie, divorzi, litigi, così i bambini dormono tranquilli e i genitori possono starsene un po’ in pace, poveretti. È una formula molto vaga che permette a chi ascolta di continuare la storia come meglio crede e ai personaggi pure, devono solo stare attenti a non ammalarsi, ad evitare scontri frontali e roba del genere. È una formula che indica una porzione di tempo indefinito, non una durata oggettiva, quindi quel sempre significa per l’eternità, ma bisogna sforzarsi d’esser felici e non è semplice.
Anzi è difficilissimo, quasi impossibile. Bisognerebbe rinunciare ai giornali e alla TV perché è pieno di cose tristi, bisognerebbe chiudersi in casa, non uscire mai, non parlare con nessuno, e già, altrimenti ti raccontano subito i guai del mondo o anche soltanto le loro tragedie familiari, mogli finite nel famoso dirupo di Canale Monterano, intossicazioni da anatra muta, irritazioni cutanee da trementina. Però se uno sta sempre chiuso in casa dopo un po’ si deprime, per forza, è inevitabile. Quindi deve uscire, affrontare la vita, col rischio di finire malinconico come i poeti. I poeti sono il genere professionale più triste dopo gli scrittori.
Forse avrei dovuto scrivere e vissero sempre relativamente felici e contenti, insomma con alti e bassi ma in sostanza felici. Avrei dovuto farlo, anzi potrei farlo, basta aggiungere relativamente, però qualcosa mi frena. Forse il fatto che la formula è sempre stata così, non si può cambiare, è troppo universalmente nota, l’attenzione andrebbe subito sul relativamente e si andrebbe a pensare che in realtà si voglia coprire una realtà diversa, fatta di continui litigi sul menù (polenta o baccalà) o su eventuali tradimenti (perché non m’ami più? c’è un altro?), magari anche problemi economici dovuti alla crisi del mercato delle nature morte con conseguente taglio ai detersivi e ai ricambi dell’aspirapolvere.
Ho chiesto scusa al lettore e ai personaggi (adesso mi dispiace soprattutto per Lucie, potrei piangere), era il minimo che potessi fare, ma questa volta non voglio fare una promessa che so di non mantenere. Mi dispiace, continuerò a scrivere, è più forte di me, come ho detto è una malattia, non se ne esce facilmente, dovrei fare una terapia o iscrivermi agli scrittori anonimi. Ormai ho capito che la scrittura provoca dipendenza come l’alcol, la droga, il fumo, il cibo, se ne deve assumere ogni giorno una dose, altrimenti si sta male, ma la cosa peggiore è che la dose cresce ogni giorno di più. All’inizio, quando ho cominciato, scrivevo solo dalle sei alle otto del mattino, poi tornavo ad essere una persona seria, uno studioso rispettato, un marito affettuoso, un padre. A poco a poco le cose sono cambiate, al terzo romanzo ero già arrivato alle nove, al quarto è accaduto l’irreparabile, dopo la piscina invece di iniziare a fare il mio lavoro riprendevo il romanzo, limavo, correggevo, aggiungevo, impostavo il capitolo successivo. Evidentemente la dose del mattino non bastava più. Giunto alla fine del settimo romanzo mi sento talmente intossicato che vedo ormai solo l’abisso, la fine.
Quindi non giuro di smettere come ho fatto l’altra volta, è impossibile, i fumatori incalliti sanno di cosa parlo, ma credo che lo capiscano tutti, perché tutti abbiamo dei brutti vizi, e se son vizi è difficile farne a meno. Potrei buttare tutti i computer di casa, come il tabagista butta le stecche di sigarette, potrei buttare anche penne e matite, la carta, persino la carta igienica e lo scottex, ma finirei lo stesso a incidere le mie frasi sulla corteccia della palma.
Continuerò a scrivere, inizierò già domani l’ottavo romanzo, so già l’inizio, Questo ha tutta l’aria d’essere un romanzo storico, così inizia, mi è venuto in mente in piscina, il titolo provvisorio è Piro piro piccolo

giovedì 12 aprile 2012

ADESSO ALTRE PECORE capitoli sessanta e sessantuno




SESSANTA

L’anatra cuoce a fuoco lento nel tegame, Adelina mescola la polenta, io apparecchio la tavola ben attento alle simmetrie. Tutto, proprio tutto, mi colma di una gioia immensa, il suo modo di tagliare la cipolla, di buttare subito le bucce nella pattumiera e mettere il coltello sporco nella lavastoviglie nella sezione che ospita i coltelli da cucina (diversa da quella dei coltelli da tavola), il senso rigorosamente antiorario del mestolo e la sua velocità costante, senza accelerazioni o deviazioni che potrebbero generare fastidiosi grumi di farina gialla, e poi le pantofole (quasi piango di commozione) che ha subito voluto comprare dabbasso per non disperdere in salotto frammenti millesimali di sporcizia urbana, i nostri nemici comuni. E poi ancora tanti dettagli minimi che posso notare solo io, piccoli gesti automatici, segnali meravigliosi di un’ossessione che finalmente potrò condividere con qualcuno.
La osservo mentre mescola la polenta e prego tutte le divinità responsabili del nostro futuro di farmi vivere per sempre con lei, per lo meno in questo attuale involucro. Dispongo i coltelli perfettamente paralleli alle forchette e lascio tra le posate e il tovagliolo uno spazio di un centimetro e mezzo, né più né meno. Poi prendo una decisione molto importante: a partire da adesso voglio pensare solo a lei, quindi per un po’ di tempo, forse qualche anno, il mio trattato dovrà aspettare, anche perché quello che dovevo scoprire l’ho già scoperto, mi ha aiutato Ciocci. Ho scoperto che l’anima è una sola e che noi siamo solo vestiti, non è granché, l’aveva gia scritto Platone, ma io però non lo sapevo. Non passerò alla storia per le indagini sulle anime migranti, però ho trovato un’anima con un vestito splendido, Adelina, il resto ha poca importanza.
Quindi basta trattato, chiudo qui la narrazione, al massimo un paio di paragrafi e quando avrò tempo racconterò come è andata.
La polenta con sugo di anatra muta era buonissima, dopo cena ho baciato a lungo Adelina per farle capire che mi era piaciuta e poi abbiamo consumato un lungo e gioioso amplesso (ride molto durante l’atto e questo un po’ m’imbarazza, ma mi abituerò).
Abbiamo deciso di vivere a Roma, a casa mia, lei sarà il mio manager con le nature morte, dice di saperci fare con i soldi. L’hotel lo ha affidato a una amica, ogni tanto volerà a Parigi per controllare che tutto sia a posto.
Forse avremo figli. Forse nipoti.



in copertina un ritratto di megliodigiotto 



SESSANTUNO

Riprendo a scrivere dopo tre anni, ma solo qualche paragrafo.
La nostra vita a Roma procede tranquilla, felice. Frequentiamo abitualmente gli amici di Ponte Sisto, giochiamo a cosa saremo e seguiamo le lezioni universitarie di Camilla. La domenica andiamo a trovarla a Villa Borghese, le portiamo il pane secco per le anatre (alcune sembrano mute, ma sono solo timide o forse riflessive) e qualche prelibatezza per lei. Ogni tanto, visto che siamo molto ricchi, invitiamo gli amici da Sora Lella a mangiare la pajata, ma io ordino riso in bianco o in alternativa un piatto di fettuccine ai funghi porcini. Si finisce sempre a cantare La mula de Parenzo e a discutere del primo problema omonimo, ma è inutile, son sempre tutti ciucchi di Frascati, diventa solo un elenco di difetti fisici. Dopo l’ultimo refrain ― perché non m’ami più? ― qualcuno dice che la ragione è semplice, si chiama aerofagia, ossia la disfunzione dell’apparato digerente consistente nella tendenza ad ingoiare aria che va nello stomaco in quantità eccessiva e provoca un rigonfiamento gassoso dell’addome con conseguente meteorismo e frequenti eruttazioni e flatulenze. Aerofagia, logorrea, alitosi, bromitrosi plantare (puzza di piedi), eccetera.
Il trattato è fermo, l’ho già detto, e noi viviamo felici. L’anno scorso a Natale Ciocci mi ha detto che il babbo ci ha visto così contenti che non ha il coraggio di finire il libro. Io lo lascio dire, però ad Adelina non dico niente, cerco di evitare i discorsi di anime e babbi, la voglio serena, tranquilla.
A Pasqua Ciocci mi ha detto che un libro è un libro, a un certo punto finisce, non si può andare avanti per anni, quindi il babbo stava pensando a una specie di riassunto, tipo e vissero sempre felici e contenti, il più possibile generico in modo che io e Adelina possiamo riempirlo nel modo che preferiamo. Dice che babbo verrà a trovarci a casa, darà un’occhiata al libro per correggere eventuali refusi, scriverà una breve conclusione e forse aggiungerà una bibliografia.
“Cos’è questa fretta?”, ho chiesto a Ciocci.
“Di solito il babbo non supera i sessanta capitoli e noi siamo già al 61”
“E poi esattamente cosa fa?”
“Te l’ho detto, controlla di nuovo tutto e aggiunge una conclusione, forse anche una bibliografia”
“E noi?”
“Con la formula e vissero sempre felici e contenti non avrete problemi, vivrete a lungo”
Il dialogo che ho trascritto è avvenuto a Ponte Sisto, a Pasqua, sul momento mi è venuta un bel po’ d’angoscia, poi per fortuna è passata. Il solito Ciocci, pensavo.
Qualche giorno fa, quando ormai non ci pensavo più, è accaduto quello che purtroppo temevo. Stavo dipingendo un porro nel mio atelier, Adelina capava le puntarelle in cucina, insomma c’era la consueta quiete domestica, quando inaspettato squilla il citofono. Chiedo chi è, risponde il babbo. Mi viene un colpo, come se avesse detto la morte. Apro e attendo sul pianerottolo.
Dall’ascensore esce un tipo molto simile a me, con una decina d’anni in più (dev’essere proprio il babbo, se sono il protagonista è logico che io sia un lui più giovane), vestito uguale, con un sorriso timido, preoccupato. Ci siamo accomodati in soggiorno, abbiamo preso un caffé parlando del clima e roba del genere, poi si è fatto coraggio e ha detto quello che mi aspettavo, che voleva rileggere tutto e scrivere e vissero sempre felici e contenti, aggiungendo eventualmente un epilogo e forse una bibliografia. Io e Adelina abbiamo detto va bene, basta che ci assicuri ancora molti anni di felicità e almeno tre figli, lui ce l’ha promesso, ha detto che l’avrebbe scritto nero su bianco, di non preoccuparci.
Gli ho dato il portatile, da adesso scrive direttamente lui.

Adelina e…accidenti mi son dimenticato il nome…megliodigiotto è il soprannome…il nome non ce l’ha…non ci posso credere…ormai però è inutile…il romanzo è finito…
Ricomincio.
Adelina e suo marito vissero a lungo felici e contenti, ebbero tre figli, fecero molte passeggiate evitando Canale Monterano per via del famoso dirupo e mangiarono molte anatre mute.
La mattina del sabato Adelina chiedeva ai figli cosa preferivano per pranzo, polenta o baccalà, ma loro rispondevano sempre pasta al sugo, semplice, come gli altri giorni. Quindi polpa di pomodoro Casar, la migliore, una cipolla intera che poi si toglie, una carota intera che poi si toglie, due foglie di basilico, niente spezie, niente peperoncino, niente esperimenti e novità altrimenti andranno ai giardinetti e torneranno a casa infangati con le scarpe piene di terra.
Direi che va bene, basta.



FINE