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venerdì 21 dicembre 2012

la legge non è uguale per tutti

Questa mattina Napolitano aveva ricevuto dal ministero della Giustizia i documenti della domanda di grazia avanzata da Ignazio La Russa, legale di Sallusti. Quindi ha firmato il decreto con cui è stata concessa al direttore del Giornale la commutazione. «Pena quantificata - si legge nella nota del Quirinale sul caso Sallusti - secondo i parametri normativi indicati dall'articolo 135 del Codice penale, in 15.532».

martedì 18 dicembre 2012

dejavù

Ogni anno in questo periodo mi arriva l'agenda nuova del mio ordine, bella, utile, pratica  ecco quest'anno giuro che incomincio per benino mi scrivo tutto, la uso regolarmente... poi cerco quella  precedente la apro e dopo gennaio vedo che  completamente intonsa, forse è meglio che la regalo a qualcuno 

lunedì 3 dicembre 2012

adesso altre prenotazioni


Si clicca http://www.produzionidalbasso.com/pdb_1703.html, poi "sostieni", poi
si apre una nuova pagina, bisogna scendere col cursore e completare i campi con
nome, indirizzo eccetera. Vi ricordo che è solo una prenotazione, senza nessun
obbligo di acquisto. Se raggiungo le 200 prenotazioni il libro va in stampa
(costa 12 euro),

lunedì 26 novembre 2012

edizione straordinaria

Nasce "Ricalcolo" un nuovo romanzo del famosissimo scrittore Enrico C.
 un romanzo da leggere tutto di un fiato, proprio  mentre lo sta scrivendo alla mattina alle 5.30 figlio  di una casuale combinazione di eventi, ambientato in terra sarda esplorerà le più antiche tradizioni e i più nuovi ritrovati tecnologici, una via di mezzo tra un romanzo di fantascienza e un corso per corrispondenza della Scuola Radioelettra Torino.



Percorro la litoranea sulla mia Audi HJY 3.33 nuova di zecca munita di sofisticati optional tecnologici tra cui l’ultimo modello di navigatore satellitare UPS, si può programmare anche il timbro vocale della signorina, il tono alto o basso, suadente, materno, imperativo, meccanico, eccetera, c’è un’ampia scelta. Io ho programmato una voce scura di contralto, molto sexy, con toni tendenti all’erotico, inflessioni moldave, errori di grammatica che fan correre la fantasia sul corpo fittizio che già immagino coperto soltanto da intimi invisibili. Utilizzo il navigatore perché mi perdo con facilità anche nel mio quartiere, anche sotto casa mia, anche a casa mia, sono uno che si perde nei pensieri figuriamoci nel traffico. Devo recarmi in Via dell’Ombelico, ho appena digitato l’indirizzo e adesso attendo istruzioni.
“Ciao bello, coraggio premi il pedale, ho tanta voglia di fare un bel giretto con te… suvvia che aspetti?”
“Sì… certo… ecco”, dico imbarazzato, poi parto a razzo lasciando il segno sull’asfalto.
“Così mi piace, dai svolta a destra in Largo Coscia e premi a manetta, non c’è controllo automatico. Guarda che hai una macchia sulla camicia”
Resto di stucco, la voce reagisce un po’ troppo, sembra seduta qui accanto. Ma no, deve essere la mia fantasia che corre troppo. La macchia l’ho aggiunta io. Mentre penso alla macchia sbaglio strada, svolto a sinistra in Largo Polpaccio. La signorina sbuffa seccata.
“Ricalcolo, tra ottocento metri c’è una rotonda, prendi la terza a sinistra, ma attento alla buca, ieri c’è finito Manlio”
“Chi è Manlio?”
“Sarai mica geloso, neh?”
Oddio, cosa sto facendo, parlo col navigatore… ma no, è solo fantasia, colpa della solitudine… però… Manlio… decido di vederci chiaro, faccio una domanda personale.
“Come ti chiami?”
“A te cosa piacereste?”
Un errore di grammatica! Che meraviglia! Dall’emozione per poco non investo una scolaresca sulle strisce.
“A me piacerebbe Ludmila”
“Non è meglio Tania?”
“No, Tania è la mia ragazza… ti va bene Ludmila?”
“Sì, tesoro, certo, adesso svolta a sinistra in Via del Lobo Sinistro… la ami la tua Tania?”
“Sì…”
“Però adesso sei con me… l’hai detto a Tania?”
“No… non credevo che… insomma…”
“Cosa non credevi?”
“Che… insomma… che tu sei…”
“Vera?”
“Bè…”
(continua)
Mi confondo, balbetto, sbaglio strada. Lei di nuovo sbuffa.
“Ricalcolo, tra duecento metri c’è un semaforo, continua dritto fino alla rotonda, poi prendi Viale Decolté fino a Via Monti di Venere e dopo cinquanta metri svolta a sinistra su Largo Natica… secondo te son vera o falsa?”
“Bè… questo navigatore ancora lo conosco poco, però sembri vera… han fatto un capolavoro, chi viaggia in auto ha finalmente un po’ di compagnia… sei vera?”
“Non te lo dico, perderei il mistero, tu come mi immagini?”
“Bella, uno schianto… però pericolosa… in macchina… la fantasia corre…”
“E poi c’è lo schianto! hi hi”
“Già… ecco Largo Natica, e adesso?”
“Dopo l’incrocio percorri la tangenziale fino a Piazza Labbra Tumide, poi accosta a destra davanti al Bar Seni Turgidi e mi trovi là”
“Ti… trovo… vuoi dire che sarai là?”
“In carne ed ossa… molta carne, tesoro mio”
“Ludmila… già t’amo…”
“Non ti distrarre, ieri Lapo ha fatto il botto”
“Chi è Lapo?”
“Ancora geloso? Lapo è uno”
“Adesso però son due, Lapo e Manlio”
“Se è per questo c’è anche Pino, Ezio, Ugo, Santo…”
“Santo?”
“Già, e t’assicuro che non è santo per nulla, è un toro!”
“Ludmila!”
“Che c’è? Dico solo la verità, Santo è un toro, attento alle strisce, ieri Gigi ha ammazzato una vecchia”
“Gigi… ma Ludmila…”
“Ecco, accosta a destra, c’è l’insegna del Bar, due tette da capogiro, io son seduta al tavolino in fondo, la macchina lasciala lì davanti, ci penso io al vigile, lo conosco, si chiama Ciro, è di Portici, un tipo simpatico…”
“Ciro… anche Ciro… c’è anche un Gennaro?”, chiedo sarcastico.
“Certo, Gennaro Esposito, di Castellammare di Stabia, un fenomeno! Me l’ero scordato, una favola!”
Rallento, accosto davanti al Bar Seni Turgidi, guardo l’insegna, mi vengono emozioni incontenibili, in preda a febbrile eccitazione decido di mettere il navigatore anche sulla giardinetta, sulla vespa, magari anche su bici, pattini e sci.
Esco dall’abitacolo, mi dirigo lesto dentro il bar, ci sono ovunque poster di tette, li osservo incantato, è un bar che vorrò frequentare spesso. Al tavolino in fondo c’è uno schianto di femmina in mezzo a una decina di uomini che le ronzano attorno, mi avvicino.
“Ludmila?”
“Sì, tesoro, ti presento Lapo, Manlio, Pino, Ezio, Ugo, Santo, Ciro, Nello, Nando e Curzio”
“Tutti bisillabi”
“Sì”
“Perché?”
“Amo i bisillabi”
Mi bacia. Mentre mi bacia cerco di ricordare il mio nome, ma non ci riesco, ho il terrore che non sia bisillabo, se mi chiamo Adalberto che succederà? Ludmila mi bacia con trasporto, i bisillabi ci osservano senza espressione, non mi sento punto tranquillo, ci guardano, maledetti bisillabi. Finalmente si stacca, stavo per soffocare.
“Ricalcolo: Lapo, Manlio, Pino, Ezio, Ugo, Santo, Ciro, Nello, Nando, Curzio e Tano.
Tano, certo, mi chiamo Tano. Anch’io bisillabo. Faccio un sospiro di sollievo, poi continuo a far ventosa, ma i bisillabi ci guardano, questo proprio non va.
“Non ci sarebbe una saletta interna?”
“Endecasillabo”

sabato 24 novembre 2012

ADDIO

dovrò dare l'addio alla mia cistifelea
alla mia amabile bile
alle mie incazzate incazzature
e forse ai miei mali di maldipancia 

lunedì 12 novembre 2012

ahii che mal de panza

dieta consigliata:
eliminare fritti condimenti e sale
ridurre aglio cipolla menta anice caffè
carni consigliate:  tacchino  pollo vitello e coniglio
affettati solo prosciutto crudo e cotto e bresaola.... assolutamente vietati gli insaccati!
evitrare il pomodoreo
formaggi solo quello freschi
uova solo alla coque
dolci pochi sempre e comunque
condimenti: eliminare il burro strutto e dado poi evitare spezie cannella noce moscata e curry
bevande niente le gassate succhi di frutta all'arancio pompelmo limone ananas pomodoro
bere acqua naturale non gassata
limitare gli alcolici

quasi quasi mi tengo il dolore 

sabato 10 novembre 2012

primarie

Posto che non andrò a votare per le primarie, devo dire che sarei disposto a ricredermi sul partito democratico se solo scoprissi che i suoi elettori fossero dotati di cervello e non votassero ne Renzi ne Bersani entrambi inadatti a diventare premier di questo scassatissimo paese, ma si tratterebbe di un miracolo.

ecco l'ho detto 

domenica 28 ottobre 2012

ciao bibbo addio babbo

Volevo spiegare per chi non ci conosce  che questo blog che ci ha così fatto divertire si è fermato perchè l'autore di SU FOGU in arte Bibbo  ha avuto un male molto grave dal quale sta venendo fuori, credo lentamente, e tutti noi speriamo che possa presto tornare  a farci ridere come pochi sono stati capaci.





Nel frattempo mio padre se ne andato da questo mondo e non trovo miglior immagine che lo rappresenti con queste infermiere dottoresse, che lo ascoltano incantate, è stato un ottimo padre e un grande medico anche se non mi curava che per le  cose gravi, la sua perdita è stata un dolore a cui pensavo di essere preparato e che invece ho avuto modo di misurare  per cinque lunghe ore con traffico e pioggia e lacrime  in autostrada da quando ho avuto la notizia .


lunedì 2 luglio 2012

della serie "i classici della fantascienza "



L’astronave fu attraversata da una tempesta di fotoni FWqT5 che fecero sbattere il polpaccio glabro del comandante Ged sul quadro dei comandi e segnatamente sul pulsante 4Wrf%, quello dell’espulsione istantanea dall’abitacolo.
“Acciderba”, mormorò Ged mentre veniva catapultato nello spazio.
“Potevi stare più attento”, disse Jiij seccata.
La pressione ionica dei fotoni aveva sollevato il gonnellino di Jiij mostrando il suo incantevole bottom al comandante, il quale deglutì imbarazzato. Il lato B della sua assistente, famoso in tutta la galassia, era il suo tallone d’Achille. Egli poteva far fronte a qualsiasi minaccia ultragalattica, resistere alle armi più sofisticate comprese le micidiali mitragliette ad elio liquido Fhyt, reagire alle radiazioni infrasintetiche delle nanoparticelle Nj2ty, difendersi dagli attacchi micidiali dei cavalieri di Andromeda, ma bastava una sola occhiata a quel delizioso culetto per metterlo in uno stato di trance cosmica che ne annullava qualsivoglia capacità di reazione alle avversità che in ogni istante rendevano la vita del futuro un continuo tormento. Ti giravi un attimo per schivare una meteora che subito un nemico se ne approfittava per spararti una nanoparticella Nj2ty, che ovviamente non si vede né fa rumore ma ti buca gli ingranaggi mandando in tilt le componenti software.
“Capitano, si svegli, sù, ma che sarà mai? Dovrò mettermi la calzamaglia, questo gonnellino si solleva sempre”
“È peggio”, sussurrò ansimando Capitan Ged.

nella foto capitan ged in azione ala spiaggia

Jiij lo osservò sorpresa, non riusciva a cogliere in quelle parole il senso recondito, incoffessato, occulto. Capitan Ged parlava poco e sempre per sintesi ermetica, utilizzando più spesso monosillabi che interi vocaboli, quasi mai frasi. La punteggiatura era inutile, non arrivava mai alla secondaria, si fermava molto prima. Jiij parlava anche per lui sperando che almeno mostrasse col viso assenso o dissenso, ma quel monologo la indisponeva al punto d’esser stata spesso tentata di farlo cadere in trance cosmica alzandosi da sola la gonnella, così poteva stare un po’ tranquilla. Ma c’eran troppi nemici, Ged sapeva difenderla dalle nanoparticelle Nj2ty, senza di lui, del suo coraggio satellitare sarebbe finita di sicuro nelle mani dei cavalieri di Andromeda e data in pasto al loro capo, il malvagio e perverso Pilon Q6ijW.
“È peggio perché?”, chiese Jiij.
Nulla, silenzio.
“Perché è peggio?”, chiese ancora Jiij.
Silenzio, la guarda assente, la bocca aperta e lo sguardo ebete di chi è in trance cosmica (non si dimentichi che i loro corpi viaggiavano ad una velocità di circa mille kilovattometri pulviscolari e la comunicazione era già di per sé molto difficile, se uno poi è sardo, come Capitan Ged, sono guai).
“Insomma perché?”, fece Jiij seccata.
“A… de…”, rispose lui.
“Ade?”
“… ri… sce…”
“Ade… risce… aderisce?”
“… tro…”
“Tro?”
“…ppo… “
“Aderisce troppo”
Capitan Ged fece cenno di sì.
“È peggio perché la calzamaglia aderisce troppo?”
“Sì”

venerdì 15 giugno 2012

vi aspetto al muretto

ringrazio gli autori passati e quelli futuri, ma in attesa del prossimo romanzo (son certo che ged non ci frequenta + perchè ne sta producendo uno) vi aspetto all'odiato muretto per una veleggiata in san Costantino 

mercoledì 13 giugno 2012

SU FOGU fine



54. - ... proprio così, capisci che tragedia! - spalancai l'anta della finestra, lasciando entrare una folata di ponente, ancora tiepida in quell'inizio di ottobre. Non mi stancavo di contemplare l'insolito panorama, rischiarato da una luce che non posso che definire radiosa. Continuai il mio racconto. - I due si sono conosciuti casualmente, per un ramo pericolante e quasi subito sono finiti a letto. Salvatore è un bel tipo, la signora chissà: ho visto le sue foto, all'inizio della vicenda; quando tutto è finito le ho riguardate, per togliermi la curiosità. Sembra un tipo non fatale, ma sexy... capisci?
- Veramente no.
- Va bene, non importa. Di quelle donne che per strada non ti volti a guardarle ma che, se sono in treno e accavallano le gambe, la componente maschile dello scompartimento distoglie all'unanimità lo sguardo dal giornale. Insomma si sono piaciuti e hanno cominciato ad andare a letto insieme. Naturalmente non c'è voluto molto perché le "sorelle della Costa" subodorassero la tresca e la notizia cominciasse a circolare. Però, in questo caso, circolava incompleta e frammen­taria, forse perché la Rinaldi non era del giro: l'inge­gnere preferiva ad­dirittura trascorrere gran parte dell'estate a Siniscola, capirai, con una villa come quella sulla Costa Smeralda! Infatti la moglie del barone, la D'Elia, conosceva moltissimi partico­lari ma non è mai riuscita ad arrivare al succo.
- Forse sapeva e non voleva parlare.
- E perché mai? è stata lei ad offrirsi di collaborare con me. Quando tutto è finito l'ho chiamata per telefono, per ringraziarla. Era sinceramente stupita e sembrerà quello che vuoi, ma certo non è un'attrice di prima grandezza. - Sorrisi. - Ora io non so proprio se la crisi matrimoniale dei Rinaldi sia l'effetto o la causa della tresca. Non so nemmeno se il tragico racconto dell'ingegnere sia tutto inventato: stando a quanto mi ha detto lui, le prime avvisaglie risalivano a molti anni prima. In questo caso l'amorazzo con Deidda sarebbe l'effetto e non la causa. Ma questo non conta assolutamente nulla: finisce la prima estate, la Rinaldi parte e Salvatore riprende la sua vita. L'estate dopo, cioè questa estate, su fogu - d’amore, però - si rialimenta. Questa volta i due si scoprono un po' troppo: approfittando della libertà che gli deriva dal suo mestiere, Salvatore prende sempre meno precauzioni e in questo modo si tradisce, almeno due volte. La prima: il vecchio giardiniere nota qualcosa che non va e, visto che non è certo il tipo del pettegolo, questo qualcosa do­veva essere ben evi­dente; lo racconta alla moglie e lei, che invece è maligna, spiffera tutto alla povera Chiara. La seconda: il suo avanti-indietro lungo la litoranea, a bordo di una voluminosa e appariscente Range Rover, viene notato e per di più dalla famiglia di un pregiudicato.
- Niente precauzioni!
- Esatto. E una come la Rinaldi, secondo me non aveva il fisico. E neppure la testa. Il marito sarà anche un bugiardo, ma quei quintali di sonnifero e tranquillanti li ho visti con i miei occhi. Ce li aveva tutti, una specie di collezione. D'altronde, te l'ho detto che era una maniaca dell'ordine e della completezza.
- Strano per una donna ricca.
- Un po' banale, come osservazione, ma non del tutto sbagliata. Ma io ho un'altra ipotesi.
- Sarebbe?
- Era lei l'uomo, in quella casa. L'ingegnere è una nullità, una bella e fascinosa nullità. Un play boy anni sessanta che aveva attaccato il cappello: un buon matrimonio, i soldi, la villa in città, al mare e in montagna e la possibilità di mettere a frutto una laurea presa nei ritagli del night. Una piccola impresa che le conoscenze del suocero e i suoi miliardi fanno quasi subito diventare importante, una delle maggiori dell'hinterland milanese. Per un po' resta a galla, ma quando il gioco si fa duro, le conoscenze non bastano più, e la ditta affonda nei debiti. Debiti che si pagano con i soldi di famiglia: in un certo senso aveva ragione Ferru, bisogna riconoscerlo.
- È vero! non ti ho chiesto di Ferru! che tipo è? cosa vi siete detti? perché dici che aveva ragione?
- È un tipo strano, difficile da descrivere, soprattutto per me. Sai cosa sono le Istentales ?
- No.
- Sono delle stelle, quelle di Orione, mi pare: in Sardegna si chiamano così perché sono le ultime a scomparire, prima dell'alba, dunque “stentano” a tramontare. Un gruppo di banditi, tutti molto giovani, l'ultima generazione insomma, ha assunto questo nome: si fanno chiamare sos Istentales, cioè quelli che non sono ancora scomparsi, che non sono stati ancora cancellati.
- Poetico!
- Bé, volendo. Ma sono canaglie come le altre, con contatti e infiltrati nella mala internazionale. Niente a che vedere con il banditismo romantico che pensi tu. Ferru lui sì che è unu istentale, uno della vecchia guardia, che tarda a scomparire.
- Cosa ti ha detto?
- Non mi ha detto un bel niente. Mi ha fatto quasi pena: un signore di mezza età che si rintana ancora nella macchia e vive fuori dal mondo, isolato, senza sapere più niente, nemmeno di quello che succede nel suo, di mondo. Mi ha detto solo che chi aveva commesso quel delitto era un pastore e non un contadino, ma intesi come simboli, ha aggiunto, tanto per tenersi ancora più sul vago.
- Ha ragione. Anche se dovresti dirgli che una cosa è quando, in periodi di siccità, l'incertezza del pa­scolo rende pericoloso il pastore; altro è quando la fame di terra rende pericoloso il contadino: lo sai, no, che il fuoco prepara terreni buoni per l'aratro? Comunque è uno strano discorso, specie in bocca a un bandito analfabeta, ma cosa c'entra con Cala Veronese?
- Ferru non è analfabeta, il contrario semmai: il suo mondo, ormai, lo legge sui libri. Non fa altro, per tutto il giorno. E comunque non c'entra nulla con Cala Veronese, hai ragione tu. È solo che, mentre ti parlavo, vedevo da una parte questa specie di Porfirio Rubirosa, e dall'altra quella donna dura, chiusa, diffidente: ho pensato alla contrapposizione tra i due modi di intendere la vita. Certo che, in questo senso, Deidda non sarebbe potuto mai essere il responsabile: lui viene da una delle zone più agricole, agricole nel profondo dell'anima, della Sardegna.
- Te l'ho già detto: anche ai contadini, in qualche caso, conviene l'incendio.
- Be' direi proprio di sì, anche fuori di metafora: infatti l'incendio lo ha appiccato Deidda, non l'ingegnere.
- E la moglie dell'ingegnere?
- La moglie si era accorta che il marito disponeva un po' troppo liberamente dei soldi di famiglia e, da quel momento, deve avere iniziato a fargli la guerra.
- Ma perché non ha divorziato?
- Perché è una "contadina": il marito fa parte della proprietà, dunque vuole domarlo, non perderlo. Deidda serve per fare sesso ma lei vuole sempre e comunque suo marito. Marito che, dal canto suo, ormai punta soltanto ai soldi: non tutti (sa che non potrà averli, perché lei gli ha già comunicato di averlo diseredato), ma gliene basterebbero anche pochi, giusto quelli dell'assicurazione.
- Ma la signora si stufa anche di Salvatore?
- Forse. Ma non è detto. Questo è stato uno dei nostri er­rori: volevamo una giustificazione psicologica per il delitto e questa sembrava la più ovvia: l'amante, tradito a sua volta, che si vendica, in un momento di disperazione, uccidendo. Salvatore non ha mai ammesso niente, se non l'incendio e l'omicidio, ma senza spiegazioni, senza fornire un movente. Adesso sembra tutto chiaro, all'inizio non era così. Sua moglie viene a sapere della tresca e gli fa una scenata; a questo punto lui ammette il tradimento e si mostra, per la prima volta nel loro lungo rapporto, intenzionato a mollare tutto. Questo può significare solo che il ménage con la Rinaldi andava bene o comunque non stava per finire.
- E allora?
- Qui comincia la vera tragedia: quella impressionante concatenazione di casualità che, unendo insieme due, anzi tre moventi, ha ingarbugliato tutto.
- Perché dici tre?
- Perché il primo era quello immaginato da Salvatore: la moglie tradita che uccide la rivale. Il secondo era quello immaginato da noi, istigati dalla confessione di Salvatore, cioè quello dell'amante tradito. Il terzo era quello reale: i soldi, naturalmente. Ne dovrei citare anche un quarto, ma è pleonastico: in Sardegna ci sono mille motivi per in­cendiare la terra e il delitto poteva benissimo essere l’effetto di uno di questi. Ma questa ipotesi, grazie al cielo, l'avevamo scartata fin dall'inizio. Vediamo solo i fatti: l'ingegnere concepisce un piano per eliminare l'opprimente consorte. Non sa, questo è fondamentale, che lei ha rinegoziato l'assicurazione, perché la posta giace in attesa dalla fedele ex domestica, a Olbia. Prepara il terreno a Siniscola, organizzando una finta battuta di pesca in solitario, invece prende la macchina e va a Cala Veronese. Non saprei dire se abbia ucciso la moglie a freddo o se il delitto sia avvenuto dopo un litigio. Fatto sta che mentre lei è seduta sul divano, lui prende un pesante pezzo di legno dalla catasta che anche d'estate orna il cami­netto e le spacca il cranio. Quando ha confessato...
- Ma come ha confessato?
- Sono andato a Milano, con un altro avviso di garanzia in ta­sca e l'ho trovato nel suo studio, che parlava con l'avvocato.
- Il topo fritto?
- Il topo fritto. Ma appena ho iniziato a leggere la motivazione, l'avvocato si è drizzato come un topo al gratin. È stato l'ingegnere a bloccarlo con un cenno, stancamente, di­cendo che preferiva essere arrestato per un omicidio che aveva commesso che non per debiti dei quali non gli fregava niente. Poi ci ha raccontato tutto. Pensava di far passare il suo delitto come un furto particolarmente cruento, così ha fatto un casino, rovesciando cassetti, rivoltando e sventrando pol­trone, spaccando vetri e, infine, portandosi via un sacco con soldi, gioielli ed argenteria, che poi ha buttato in mare. Tutto inutile, naturalmente, dopo la vera distruzione, quella dell'incendio: i vetri sono scoppiati, le poltrone e i mobili bruciati, all'argenteria nessuno poteva far caso. La messinscena, anche abbastanza abile, è stata apprezzata solo da Deidda e da sua moglie, che sono arrivati sul luogo del delitto pochissimo tempo dopo la fuga del vero assassino.
- A mezzanotte.
- Sull'ora rimangono dei dubbi, perché il racconto di Chiara Deidda è frammentario e molto personale: lei dice di aver trattenuto la collera a lungo, molto dopo l'ora di cena; poi ha vestito i bambini, li ha portati dalla sorella e ci ha messo un sacco di tempo a trovare la villa. Quando è arri­vata ha visto solo il cadavere e la macabra scenografia preparata da Rinaldi. Due cose ancora non capisco: perché Deidda, pur avendo visto anche lui quel marasma, abbia ritenuto subito e senza ombra di dubbio la moglie, svenuta in mezzo alla sala, responsabile dell'omicidio; secondo: come faceva a sapere che l'avrebbe trovata lì.
- Le situazioni tragiche acuiscono l'intuizione.
- Può essere, ma penso che lui ci sia andato per incontrare la Rinaldi e non per cercare la moglie, come invece quest'ultima sembra credere. Secondo te è più logica una sequenza del genere: Salvatore torna a casa, non trova la moglie e i bambini, pensa subito al peggio e corre a Cala Veronese, oppure Salvatore non torna affatto a casa e, appena libero dal lavoro, si precipita dall'amante per riferirle che la situazione è precipitata e che la moglie ha scoperto tutto?
- Quest'ultima.
- Credo anch'io. Rimane l'altro interrogativo, ma forse la coscienza sporca vale più di mille ragionamenti. Il vero gentiluomo viene fuori a questo punto: non ha commesso alcun delitto, se non un banale tradimento, eppure da questo momento si accolla ogni responsabilità. O meglio: pensa di accollarsi tutte le responsabilità. Così decide di dar fuoco alla casa e, dato che è un professionista e fiuta l'imminente arrivo della maestralata, simula un tipico incendio doloso e non un incidente domestico. Così facendo contravviene ovviamente alla regola etica principale del suo lavoro, e questo fatto lo turba a tal punto che tenta in tutti i modi di limitare i danni del fuoco: come ti ho raccontato, è proprio nel tentativo di dare l'allarme che in qualche modo si è tradito. Deve aver passato l'intera estate tormentato dai rimorsi e dalla preoccupazione. Quando, alla fine, viene messo davanti alla verità, prima nega decisamente poi, alla sola minaccia di un coinvolgimento della sua famiglia, ammette tutto, anche ciò che non ha commesso. Alla base di questa confes­sione io credo stia il fatto che non ha avuto il tempo materiale per parlare, con calma, con la moglie: l'ha spedita al paese, ancora sotto choc, e poi l'ha rivista dopo molti giorni, nella casa del padre, insieme a tutta la famiglia. Magari nel frattempo aveva deciso di evitare qualsiasi accenno all'accaduto. Ma credo che, se anche lei gli avesse giurato la sua innocenza, come pare abbia fatto, non l'avrebbe creduta comunque, tanto la pensava colpevole e tanto si riteneva corresponsabile.
- Che tragedia! E l'ingegnere?
- L'ingegnere sarà caduto dalla nuvole un centinaio di volte, in quelle poche ore. Prima di tutto trova il suo piano modificato, ma decisamente in meglio: non aveva pensato a un incendio doloso e quel fattore, per lui assolutamente ca­suale, certo non lo rattrista. Quel che lo getta nello sconforto è invece la raccomandata della compagnia di assicurazioni che legge, per la prima volta, quella stessa mattina. Tuttavia, non appena capisce che io non sono affatto convinto della casualità dell'incendio, improvvisa una variante e perfeziona il suo sfogo di marito angosciato - finto, ma talmente credibile che continuo a ritenerlo almeno un po' rispondente a verità - consegnandomi quella lettera, il cui contenuto nega ogni possibile movente finanziario. Senza busta, naturalmente, e senza dirmi che l'ha appena aperta.
- Ma Deidda, adesso, che cosa ha da dire?
- Cosa vuoi che dica? abbiamo fatto tutto noi, grazie all'aiuto della moglie. Lui si è ritrovato in libertà vigilata, accusato solo di incendio doloso, di omicidio preterintenzionale e di tentato occultamento di cadavere. Non è poco ma non è omicidio di primo grado, se permetti. E poi ha ritrovato l'amore della moglie; ovviamente è senza lavoro. Non so, ma, tutto sommato credo che...
Fui interrotto da un'esplosione violenta, che rintronò nell'aria tiepida facendo vibrare i vetri della finestra e il pavimento. Per un riflesso condizionato mi nascosi precipitosamente dietro lo stipite.
- Santo cielo! che cos'era?
- È mezzogiorno. - Rideva. - È soltanto il cannone di Garibaldi! È lo scotto che si paga per abitare alle pendici del Gianicolo. Dopo un po' ci si fa l'abitudine. Invece mi piacerebbe che evitassi di stazionare ancora a lungo, in mutande, davanti alla mia finestra. Dovresti vestirti, commissario, magari possiamo fare una passeggiata...
Mancavano solo due giorni alla fine delle mie vacanze. Non avevo nessuna voglia di passeggiare. Così non risposi e raggiunsi la dottoressa Fresi nel letto, tornando a sdraiarmi al suo fianco.

FINE

martedì 12 giugno 2012

52 53




 52. La moglie di Deidda era una bella donna, una tipica bellezza dell'interno, con grandi occhi neri, zigomi alti sul viso perfettamente ovale, il mento sfuggente. Era piccola di statura, ma proporzionata, sebbene mani e piedi risultassero stranamente lunghi e ossuti rispetto alla corporatura complessiva. Sotto lo scialle - che una volta dentro, al sicuro, si tolse - era vestita in modo indefinibile: gonna grigio chiaro e camicetta bianca senza tasche né impunture. Soprattutto mi colpì l'anacronismo dell'orologino d'oro, uno di quei modelli esclusivamente femminili, ormai fuori moda. Non so perché ma provai una stretta, che probabilmente era pena.
- Si sieda, prego, - le dissi, dopo averla dirottata verso l'unica stanza che ricordavo ordinata, la cucina. - Mi scusi se la faccio accomodare qui, ma, sa come succede, le case degli sca­poli non sono mai del tutto presentabili... - Mi rifugiavo nelle frasi fatte per darle il tempo di adattarsi e di trovare il coraggio di espormi la sua storia: lo stava cercando, poverina, e lo potevo capire dal silenzio ostinato e dai grandi occhi liquidi che erravano lungo gli interstizi delle piastrelle. Fu Fadda a sollecitarla.
- Forza, Chiara, racconta al commissario quello che volevi dirgli. Non c'è niente da temere, vero commissario?
- Non lo so, non posso promettere che sarò buono quando la mia bontà è legata a quella degli altri. - Sorrisi, per far capire che scherzavo, ma i miei interlocutori non erano in vena, quella sera. - Coraggio, signora Chiara: non le ha detto Gavino che io sono un poliziotto per modo di dire? Ha mai visto un poliziotto con un naso spellato come il mio? - Guardò il mio naso e, finalmente, accennò a una parvenza di sorriso. Le disgrazie altrui, pur minime, sollevano sempre. Poi, tutto d'un fiato, come se sospirasse:
- Io ero lì. - E restò zitta, fissandomi negli occhi. Per dire la verità: forse ero ancora mezzo addormentato, e probabilmente tutto quell'ozio mi aveva intontito. Quale che fosse la causa, fino a quel momento non mi aveva neppure sfiorato l'idea che quella visita significasse qualcosa di veramente importante; pensavo alla normale amministrazione della miseria di questi casi: mogli che chiedono cosa sarà di loro, una parola buona col giudice, un permesso di visita più lungo, un limite di peso più alto per i pacchi da portare in carcere. Niente che io possa fare per loro, di solito, ma cerco di trovare almeno una parola di incoraggiamento. Ero pronto a farlo anche ora, quando misi a fuoco il significato di quella frase.
- Era lì dove?
- Nella villa, a Cala Veronese. - Di nuovo silenzio, forse pensava che il mio lavoro consistesse nel domandare frase dopo frase.
- Signora, vorrei che riflettesse su quanto dice. Oppure che mi spiegasse meglio: lei era presente, diciamo, alla morte della signora Rinaldi, a villa "La Rotonda", la sera dell'incendio? Ho capito bene? - Spostai la sedia, fino a trovarmi esattamente di fronte a lei, per catturarne lo sguardo che aveva ripreso a vagabondare.
- Ha capito bene.
- Dunque lei è una testimone oculare del delitto di... di suo... del Deidda? In questo caso, signora, sono spiacente, ma credo che potrebbe essere accusata di complicità, a meno che non riesca a spiegarsi meglio. Insomma io vorrei capire se lei, in qualche modo, è stata costretta...
- Chiara, malasorte, perché non dici quello che hai detto a me?! - La brusca esortazione di Gavino sortì un qualche effetto: Chiara si passò una mano sugli occhi e poi sul naso, una, due volte; poi riunì anche l'altra mano e si coprì il viso per un secondo. Infine disse:
- Lei ha capito tutto tranne che una cosa: mio marito non ha ucciso nessuno...
- Attenzione, signora Deidda: esiste una confessione che contraddice quanto lei afferma. Se vuole continuare su questa linea, la avverto che non potrò starla a sentire se non in presenza del sostituto procuratore, in una sede ufficiale. Soprattutto se, come penso, vuole confessare lei il delitto, per scagionare suo marito. Ha capito bene?
- Io non voglio confessare niente. Volevo solo dirle che mio marito non ha ammazzato la signora.
- E lei come lo sa?
- Le ho detto che ero presente.
- Era presente a cosa, se non c'è stato delitto? E poi, se non c'è stato delitto, mi dovete spiegare perché la signora Grisi era morta. - Avevo alzato la voce: quel colloquio mi stava irritando.
- Aspetti, commissario, non si arrabbi. - Fadda mi appoggiò la sua mano gigantesca sul polso. - Chiara, per favore, racconta tutta la storia al commissario, così come l'hai detta a me, senza fare questa scena assurda. Vedrai che se dici tutto poi ti senti meglio, e anche il commissario sa cosa fare.

53. - Io lo sapevo che c'era un'altra donna. Salvatore adesso è un uomo serio, ma quando eravamo giovani me ne ha fatte di cotte e di crude e io lo vedo quando c'è qualcosa che non va. Me lo sentivo, già prima che tia Maria, la moglie di Cosimo, me lo dicesse.
- Chi è Cosimo?
- L'avete interrogato: è quel vecchietto, il giardiniere. La moglie è una vecchia pazza, che lo tiene ancora in casa la sera perché è gelosa di lui e non fa altro che vedere corna dovunque, anche adesso che ha ottant'anni. Anzi, adesso vede meglio quelle degli altri. Il marito deve averle raccontato che Salvatore andava alla villa, che si vedeva con quella milanese, mattina e sera, e anche la notte. Per lui è facile: basta dire che c'è un'emergenza.
- E poi?
- Poi ho cominciato a controllarlo e... allora gli ho fatto una scenata: io sono una donna molto gelosa, commissario, e sono fidanzata con Salvatore da quando avevo quindici anni, dunque non sono disposta a farmelo portare via. Lui prima ha negato, poi, quando gli ho detto che sapevo tutto, anche i particolari e i nomi, si è fatto serio e mi ha detto che lo sapeva, sì, certo ma che, questa volta, non era certo di come sarebbe finita. "Te lo faccio vedere io come finisce", gli ho urlato e me ne sono uscita di casa. Questo la sera prima del­l'incendio.
- E il giorno dopo?
- Il giorno dopo lui è uscito presto e non si è visto per tutta la mattina, nemmeno a pranzo. Alle due si è ripresentato e non ha detto una parola; si è cambiato la camicia ed è uscito di nuovo. Ero fuori di me dalla rabbia, pensavo che andasse dalla signora. Ho aspettato l'ora di cena, poi la notte: niente, non si è fatto vivo, nemmeno per telefono. Alle undici ho portato i bambini da mia sorella e poi, come una pazza, sono andata verso la villa di Cala Veronese.
- Quanto tempo ci ha messo? a che ora è arrivata?
- Almeno un'ora dopo. Di notte non guido mai e poi non conoscevo la strada.
- A mezzanotte, dunque. Poi?
- Poi mi sono fatta coraggio e sono entrata nel giardino. Sono andata verso il davanti, perché vedevo delle luci accese.
- In che senso "il davanti"?
- Dove c'era la vetrata, dalla parte del mare. Mi sono avvicinata ai vetri, per spiare dentro. Non si sentiva niente, nessun rumore. C'era una lampada da tavolo accesa, e basta. Poi ho visto la signora: stava sdraiata sul divano e sembrava addormentata. Mi sono decisa: lì per lì ho pensato di par­larle francamente, da donna a donna, così ho bussato sui vetri, fa­cendo un gran rumore, per svegliarla; ho gridato "permesso, permesso", poi sono entrata da una delle porte, perché erano tutte aperte. C'era un silenzio da far paura, ma soprattutto era tutto in disordine: le poltrone rovesciate, le fodere squarciate, i cassetti buttati per terra. "Signora", ho chiamato, "signora". Poi ho visto la sua testa, illuminata dalla lampada del tavolino. - Si interruppe e deglutì a vuoto. Aveva gli occhi spa­lancati, come chi si sveglia nel sonno con un incubo ancora nel cervello. Guardò prima Fadda, poi me: le feci un gesto amichevole. - Aveva la testa insanguinata, qui sul lato destro, una ferita enorme, tutti i capelli sporchi di sangue. Dio mio! - Scoppiò in lacrime ma continuò il suo racconto, tra i singhiozzi. - Per terra, vicino al divano, c'era un bastone, tutto sporco di sangue e di ca­pelli. Dio mio! Dio mio! - Coraggio, signora Deidda, si calmi. Gavino, per favore, versi un po' di rum in quel bicchiere. Grazie. Beva un sorso di questo, le farà bene.
- Grazie, commissario, non è nulla. - Sorseggiò appena il liquore e rabbrividì. - Quando ho visto quel bastone devo essere svenuta, perché mi sono risvegliata tra le braccia di Salvatore. Pensavo di avere sognato, così l'ho abbracciato, come se niente fosse. Poi ho visto la lampada e il divano e la testa insanguinata. Mi sono messa a urlare, a tremare. Salvatore mi ha stretto forte, poi mi ha dato uno schiaffo. Mi ha fatto sedere e diceva: "adesso sistemiamo tutto, adesso sistemiamo tutto, è colpa mia, è colpa mia". Sembrava un pazzo anche lui. Si è infilato dietro un muro ed è tornato con una tanica che sembrava piena di benzina. Poi mi ha detto di mettere un po' d'ordine, ma io non capivo niente. Allora ha raddrizzato lui qualche poltrona, ha rimesso a posto due o tre cassetti, sollevato un tavolinetto e una lampada. Poi è tornato da me e mi ha preso le mani, dicendo che mi capiva, che mi voleva bene e che mi avrebbe difeso. Pensava che avessi ammazzato la sua amante, ha capito commissario? che fossi stata io a spaccarle la testa! lo ha sempre pensato e lo pensa ancora. Non crede a una parola di quello che gli dico, pensa che io sia sotto choc, o pazza completamente. Quando mi sono calmata mi ha chiesto se me la sentivo di guidare: gli ho risposto "non lo so" e lui ha detto "devi per forza". Ha preso quel pezzo di bastone orribile e la tanica, poi mi ha fatto cenno di uscire con lui. Sono salita in macchina e sono fuggita via. Non so quanto tempo è passato, né che ora era quando è tornato a casa: io ero in cucina e ancora tremavo. Mi ha preso per mano, poi in braccio, e mi ha messo a letto. Ho sentito che trafficava in cucina, forse mangiava qualcosa. È uscito che ero ancora sveglia.
- Quando l'ha rivisto?
- È tornato a casa alle tre e mezzo del pomeriggio del giorno dopo, ridotto da far pietà perché era stato tutta la notte e tutta la mattina a spegnere l'incendio che aveva ap­piccato lui stesso. Non si è neppure lavato: ha fatto i bagagli per me e per i bambini, ci ha caricati sulla Range Rover e ci ha portati fino alla stazione di Olbia, perché il pullman era già partito. Mi ha detto di andare al paese e di dimenticarmi tutto. Di pensare ai bambini. Poi mi ha dato un bacio e se n'è andato. Per favore, commissario, ci aiuti! non sono stata io, anche se Salvatore è convinto di sì. Ma non è stato neppure lui.
L'aiutai a calmarsi, le preparai una camomilla, che rifiutò. Le dissi di andarsene a casa e di dormire tranquilla perché avrei pensato a tutto io. Pregai Gavino di riaccompagnarla, ma quando furono sulla strada lo richiamai con una scusa e mentre Chiara lo aspettava camminando lenta­mente verso una Panda verde oliva, gli dissi:
- La storia sarà anche convincente, ma purtroppo non scagiona Salvatore: ha avuto comunque tutto il tempo per ammazzare la Rinaldi, poi si è ritrovato una moglie di troppo, al momento sbagliato e nel posto sbagliato: ha inventato una bella pantomima, destinata a lei che, come ha visto, in nessun tempo e in nessun caso lo sospetterà mai di omici­dio. Almeno lei.
- Molto diabolico, commissà, ma molto inutile e soprattutto molto impossibile, dato che Salvatore, dal pomeriggio dell'incendio, è stato sempre con me, prima in campagna e poi in caserma, fino a mezzanotte passata. Sul resto no, ma su questo posso proprio giurarci…  

lunedì 11 giugno 2012

SU FOGU capitolo cinquantuno


51. Quelle giornate passate sotto il sole mi stremavano: andavo a letto alle nove, massimo le dieci e mi svegliavo all'alba, pronto per tornare a pescare. Marta aveva telefonato, finalmente, ma solo per comunicarmi la sua partenza. Non aveva voluto che la accompagnassi fino al traghetto e nemmeno che la andassi a salutare. Però parlammo a lungo (anche se odio parlare a lungo per telefono) e ci lasciammo, come si dice, da amici: nessun rancore, e la vita continua. E con una specie di promessa. Alla fine della telefonata mi ero steso sul letto, convinto che l'agitazione mi avrebbe tenuto sveglio. Invece ero caduto in un torpore instabile, che presto si era trasformato in sonno profondo. Stavo sognando di battere un polpo sul bordo della barca quando mi resi conto che i colpi erano reali e provenivano dal portone: qualcuno che mi svegliava nel cuore della notte, probabilmente un caso urgente. Guardai l'orologio e scoprii che erano solo le dieci e dieci. Guardai me stesso e mi accorsi di essere ancora completamente vestito. Riguadagnai la realtà e mi precipitai ad aprire. Era Fadda, il pompiere, con un sorriso timido disperso tra le guance irsute.
- Buonasera Gavino, cosa succede?
- Niente di grave, commissario, non si preoccupi. Ero venuto per dirle una parola.
- Cosa fa lì sulla porta? entri che le offro un bicchiere di vino, una birra, un caffè. - Mentre varcava la soglia cercai di domare i miei capelli, o quel che ne resta e che la salsedine rende comunque indomabile. Entrò guardandosi intorno con curiosità rispettosa e mi seguì nello studio, cioè nella stanza dove trovano posto un tavolo su cavalletti, due poltrone da terrazzo e tutti i miei libri.
- Allora?
- Allora. Allora non è facile. So che avete arrestato Salvatore.
- Sarebbe difficile non saperlo: ne hanno parlato tutti i giornali. Però, mi creda, mi è dispiaciuto davvero molto. Non ci avrei mai creduto, una persona come lui...
- Ma ha confessato.
- Certo, ha confessato.
- È questo il punto.
- Allora?
- Lei conosce la moglie? Chiara Deidda?
- No.
- È venuta da me, ieri sera, e mi ha raccontato una strana storia. Su quella notte e sull'incendio.
- Ma non era al suo paese? Salvatore ci ha detto che...
- Aspetti, commissario, mi lasci finire. Il giorno dopo l'incendio, Salvatore ha spedito moglie e figli a Villasor, al paese, appunto.
- È vero, mi ricordo: me lo disse Pirro, perché avevano organizzato una cena da scapoli.
- Sì, c'ero anch'io. E la moglie è sempre rimasta lì, per tutto questo tempo. Poi, il giorno dopo l'arresto, è ricomparsa, senza i due figli, è andata a casa e si è chiusa dentro. Esce soltanto per andare a trovare Salvatore. Ma ieri sera si è presentata a casa mia, scura in volto e molto emo­zionata, si vedeva che aveva pianto. E mi ha raccontato questa storia.
- E in cosa consiste, questa storia?
- È per questo che sono qui. Le ho detto che io non me ne intendevo di cose legali, ma che conoscevo qualcuno che, forse, poteva aiutarla o almeno darle ascolto. Lei non vorrebbe fare questo?
- Ascoltare la storia di Chiara Deidda? certamente, non vedo perché no. Ma quello che non capisco è questa aria di mistero, le visite notturne, le sue esitazioni.
- È che Salvatore non sa nulla di quello che sta facendo sua moglie.
- Ah! - rimasi in silenzio per qualche istante. - Va bene: possiamo vederci domani mattina, alle nove, in Questura?
- Direi di no. È sempre perché Chiara non vuole che si sappia che ha parlato con lei. Che Salvatore sappia.  E dice che è urgente.
- Allora dobbiamo andare da lei, subito?
- Per la verità, no: è qui fuori che aspetta.
Mi sentii stupido, imbarazzato e anche insensibile: non avevo capito che, a pochi metri dal mio portone, si stava consumando una piccola tragedia. Corsi fuori; sul lato opposto della piazza intravidi nella penombra una figura femminile, che guardava nella mia direzione; le feci un gesto di saluto che trasformai in un invito ad avvicinarsi. Lei si voltò verso la strada principale, poi scrutò la vetrina illuminata del bar d'angolo e infine s'incamminò cautamente in direzione del mio portone. Nel farlo si coprì il capo con uno scialle, aggiungendo a tutta la scena, già di per sé inutilmente teatrale, un tocco arcaico. Deleddiano, direi, se non fo

domenica 10 giugno 2012

SU FOGU capitoli quarantanove cinquanta



49. Nei giorni seguenti tentai di parlare di nuovo con Salvatore. Volevo capire se, superato il momento dello scontro diretto, quando anch'io avevo trasceso il livello minimo di  comprensione umana, sarebbe riuscito a spiegarmi, e forse a spiegarsi, quello che era successo; con calma, serenamente, come in uno sfogo tra buoni conoscenti, se non fra amici. Fu inutile: andai a trovarlo, ci stringemmo la mano e restammo a guardarci per lunghi secondi. Quando iniziai a parlare, con il tono pacato che uso sempre ma che in questo caso era anche studiato, lui distolse lo sguardo e si mise a fissare il bordo del tavolo. Mi lasciò correre, con le mie ipotesi - ulteriori ipotesi, più dettagliate e stringenti di quelle esposte nello studio di Casula - non più sulle sue azioni, ma sui suoi sentimenti, che in quel momento, nella veste del giudice autoproclamato, mi sembravano altrettanto nitidi. Ma che, soprattutto, non mi riguardavano.
Fu proprio quanto, alla fine, mi fece notare Salvatore; senza livore, anzi quasi con cortesia, come chi vuol fare rilevare al suo interlocutore una piccola gaffe che imba­razza entrambi.
- Fontana, - mi disse, - lei ha avuto la cortesia di venire a trovarmi: non sciupi tutto con queste miserie.
- Speravo che avesse voglia di confidarsi e così sono venuto come amico e non come poliziotto. Proprio perché la stimo non riesco a spiegarmi come una persona come lei...
- La sua è solo curiosità, Fontana, curiosità non morbosa, ma in questo momento non c'è niente che mi irriti di più della curiosità. No, no, - con un gesto stanco interruppe la mia protesta - lo so che il suo interessamento è  amichevole, che magari potrebbe anche avere buone ripercussioni sulla mia sorte. Ma non voglio più parlare di tutto questo. Ha letto i giornali?
- Sì, purtroppo. Sa, noi abbiamo fatto del nostro meglio, ma il Sindaco ci teneva a prendere le distanze, a chiarire la posizione di "netta condanna da parte delle autorità per un gesto inspiegabilmente efferato oltre che nocivo per l'ordine pubblico". - Citai a braccio un brano saliente dell'intervista pubblicata su un giornale locale. Salvatore accennò a un sorriso.
- Come la peronospora.
- Come dice?
- "Nocivo". Nocivo come un parassita.
- Il nostro primo cittadino non brilla nella scelta degli aggettivi.
- Invece trovo calzante il paragone. Mi sento proprio nocivo. Nocivo e minuscolo come un insetto molesto.
Parlammo del più e del meno, ancora per qualche mi­nuto. Salvatore chiese notizie dell'ingegnere e anche di Marta. Mi confidò di sentirsi profondamente in colpa, nei loro riguardi. Gli spiegai che all'ingegnere probabilmente non importava molto della sorte della moglie e che forse per lui quella morte inaspettata rappresentava una liberazione, almeno stando a quanto mi aveva detto. Se n'era andato, era partito per Milano, e aveva messo in vendita la casa. Marta invece - era il mio turno di confidenze - ce l'aveva soltanto con me, che l'avevo sospettata ingiustamente, malgrado fra di noi si fosse instaurato un rapporto di amicizia. Salvatore scosse il capo e disse che non sarebbe mai riuscito a capire le donne. Poi mi ringraziò della visita e ci congedammo, ami­chevolmente.

50. Settembre. La sua luce tersa, di estate stanca ma di anno nuovo, stava ponendo seri interrogativi sull'attendibilità delle previsioni meteorologiche, che davano ancora per sicuri grande caldo e afa, su tutta la Sardegna. La gente. Erano spariti tutti, tranne qualche tedesco povero, da fuori stagione, che si godeva il paradiso terrestre per pochi marchi. Poi c'ero io, ufficialmente e praticamente in vacanza. Guardavo un cielo color cobalto attraverso i forellini del mio cappello di paglia; stavo steso sul dorso, nel centro geometrico di un semicerchio deserto di corallo sminuzzato, rosa e soffice, i piedi nel mare fresco, la schiena sulla sabbia calda. La paglietta mi copriva la faccia, nascondendo al sole, settembrino ma ancora pericoloso, il naso scottato e, al mondo, una vergognosa inerzia. La prua della mia barca, ancorata a terra e ormai quasi in secca, amplificava il flebile suono di risacca di onde impercettibili, tonfando e poi stronfiando sulla sabbia. Presi una bottiglietta di Campari dalla borsa frigorifera e me la imposi sul naso sofferente, procurandomi un ingannevole attimo di sollievo. Poi iniziai a bere, poggiato sul gomito sinistro, assorto nella contemplazione del movimento ritmico della cima dell'ancora che entrava e usciva dall'acqua, sempre nello stesso punto, tesa dal movimento oscillatorio della barca.
Quanto tempo era che me ne stavo cosi? Un'ora, due? Una settimana, un mese? Il tempo dilatato dall'ozio mi aveva confuso le idee. Dopo l'ultimo incontro con Salvatore non avevo fatto niente. Niente di niente. Una cena da Casula, va bene, ma avevamo parlato d'altro, perché la storia di Cala Veronese non piaceva a nessuno dei due. Poi ancora due giorni in ufficio, per sistemare i particolari, chiedere le ferie, lasciare istruzioni a Pirro. Istruzioni indiscutibili e immodificabili: non c'ero, ero fuori, lontano, irreperibile. Per tutti. Tranne che per casi particolarmente urgenti, per mia madre, per Giuseppe (che tanto sapeva dov'ero, cioè a casa la sera e in barca dalla mattina al pome­riggio). E per Marta, che comunque non aveva chiamato. A dire il vero non c'era stata nessuna chiamata, perché settembre è il mese dei pensieri, non delle azioni, e la Polizia non serve.
Ma sarebbe ingiusto dire che non avevo fatto proprio niente: avevo sbrogliato due lenze da traino, pulito la barca e la casa, preso un dentice nano o forse sottosviluppato e un'ombrina da un chilo. Avevo cucinato uova al bacon, patate fritte, spaghetti con le vongole, l'ombrina. E avevo rimesso in libertà il dentice nano. Letto tre libri, iniziato un quarto e abbandonato il quinto che mi annoiava. Dormito, pescato, fatto il bagno, veleggiato e pensato. A Marta, essenzialmente, e al caso di Cala Veronese, negli intervalli. È una strana sensazione sentirsi felici nel corpo e malinconici nello spirito, ma settembre è un bel mese, anche per questo. 

sabato 9 giugno 2012

SU FOGU capitolo quarantotto e tutto a posto va



                                       SU FOGU  è tutta una questione di messa a foggu

48. Era come se lo vedessi per la prima volta: Salvatore Deidda aveva capelli castani lisci e folti, occhi azzurri e un naso piccolo e dritto che tagliava con decisione  il volto allungato; un fisico perfetto, spalle larghe e vita stretta, braccia muscolose e mani forti, molto virili. Quel che si dice un bell'uomo. Sciupato, decisamente, abbronzato come sempre, ma pallido e smagrito: l'effetto di una cattiva coscienza su un uomo probo? Casula, fino a quel momento, aveva mantenuto l'interrogatorio sul vago, ma sentivo che, com'è nel suo stile, stava per stringere il cappio.
- Lei conosceva i signori Rinaldi?
- Rinaldi... - pausa di riflessione, - Rinaldi l'ingegnere?
- Il proprietario della villa di Cala Veronese.
- Non proprio.
- Può spiegarsi meglio?
- So che abita lì.
- Ma quando gliel'ho chiesto, - intervenni - mi ha detto che i proprietari della villa erano forestieri, di Roma, di Milano, chissà. Mentre ora ricorda perfino il cognome.
- Non riesco a capire il motivo di queste domande: pensavo che vi servissero solo altre delucidazioni sull'incen­dio. Glielo ripeto, comunque, non è che proprio li cono­scessi. Sapevo che erano di fuori e, in un discorso meno vago, mi sarei ricordato anche il cognome, forse.
- Forse, - riprese Casula, - ma forse conosceva meglio la signora, Luisa Grisi Rinaldi?
- Non mi sembra. Perché?
- Se le dicessi che tra gli incartamenti del suo comando abbiamo trovato un rapporto dettagliato, a sua firma, su un intervento d'urgenza alla villa "La Rotonda" risalente al giugno dello scorso anno, l'aiuterebbe a ricordare?
- Ah, sì: ci avevano chiamato perché uno dei pini del giardino aveva un ramo spezzato che minacciava di precipi­tare sul tetto della rimessa. Per questo mi ricordavo il cognome.
- Quante volte si è recato alla villa?
- Una, forse due. Ma continuo a non capire.
- Con chi ha parlato? chi le ha spiegato il problema del pino?
- Non mi ricordo, la signora forse. Sì, la signora, insieme al giardiniere, quel vecchietto che il commissario...
- E non è più tornato?
- Le ho già detto che ci sono andato due volte: la prima a vedere e la seconda, con le scale, per l'intervento.
- Lei possiede una Range Rover beige?
- Sì.
- Targata Sassari B56881?
- Sì.
- A noi risulta che la sua auto è transitata molte volte, di giorno e di notte, lungo la strada che conduce a Cala Veronese. Sia la scorsa estate che questa. Ci è sembrato strano: quella strada non conduce in molti luoghi.
- Dottor Casula, avrebbe la bontà di spiegarmi cosa diavolo sta succedendo? ho l'impressione che questa non sia una chiacchierata sull'incendio, ma un interrogatorio. Volete accusarmi di qualcosa? connivenza con i piromani? oppure favoreggiamento? vi prego di essere chiari: in questo caso so che dovrei essere in qualche modo tutelato, potrei aver bisogno di un avvocato.
- Sarò franco, signor Deidda. Speravo veramente che lei ci aiutasse a svolgere un compito ingrato, che fosse meno reticente. Mi avrebbe aiutato molto in una spiacevole incom­benza, che consiste, in sintesi, nell'accusarla dell'incendio di Cala Veronese e dell'omicidio volontario della signora Rinaldi. Oltre che, conseguentemente, dell'omicidio preterintenzionale di un'altra persona, di tentato occultamento di cadavere, reticenza, omissione di atti di ufficio e intralcio alle indagini. Ci sono però ancora molti fatti da chiarire e, mi creda, spero che lei ci aiuti a dimostrare che quanto abbiamo raccolto contro di lei sia solo un castello di carte. Il commissario Fontana mi dice che lei è una persona onesta e un lavoratore irreprensibile e io mi fido del suo giudizio. Ora: vuole chiamare un avvocato?
Mentre Giuseppe parlava, lo stupore, sul viso di Deidda aveva lasciato il posto alla rabbia. Ma direi che la preoccupazione mancava.
- Ma voi siete completamente pazzi o andate cercando un capro espiatorio? Io non ci posso credere: anch'io stimo Fontana ma visto che è qui e che, evidentemente, si presta o è parte in causa di questa buffonata, devo ricredermi. Commissario, che storia è questa?
Guardai Giuseppe, che mi fece cenno di procedere. - Salvatore, la prima persona a non credere alla sua colpevolezza sono proprio io. In linea teorica, però. I fatti vanno in tutt'altra direzione: per questo saremmo lieti che lei ci spiegasse alcuni particolari, in tutta sincerità. Vuole? o pre­ferisce consultarsi con un legale?
- Sentiamo.
- Lei era l'amante della signora Rinaldi?
- Ma quando mai! l'ho vista due volte, in tutto.
- E quella gite a Cala Veronese?
- Faccio sempre un giro di ispezione, prima di tornare a casa, specialmente d'estate.
- Sempre e solo a Cala Veronese. - Disse Casula.
- Ma no, un giro ampio, lungo la costa: a cosa mi serve il fuoristrada, scusi?
- Anche alle tre di notte?
- Ma chi ve le ha raccontate, queste balle?
- Ci sono dei testimoni oculari. E in paese circolano voci, sempre più insistenti, su una relazione extraconiugale della signora Rinaldi. Se il commissario Fontana avesse insi­stito, cosa che non ha fatto soltanto per salvaguardare il più a lungo possibile il suo buon nome, oggi saprebbe anche nome e cognome dell'amante. Cioè lei, non è vero?
- Voci, chiacchiere delle comari: sono queste le vostre prove? sa quante volte hanno detto che avevo un'altra donna, un'amante? cento, mille volte.
- Lei è un uomo piacente. Ma anche un marito poco fedele, almeno a quanto risulta dal casellario giudiziario: è vero che lei se n'è andato dal luogo del suo primo incarico a seguito di una lite, quasi finita a coltellate, originata da una questione di corna? e che poi è stato reintegrato nel suo grado solo per la sua capacità, che tutti le riconoscono?
- Ma ero un ragazzino!
- Parliamo di cose serie, Deidda: chi ha dato l'allarme la notte di Cala Veronese?
- C'è stato un messaggio, lanciato da un peschereccio. Lo sapete meglio di me.
- Il suo aiutante, Gavino Fadda, ha dichiarato di averla incontrata in prossimità della vostra caserma e che lei gli avrebbe riferito di aver sentito una persona che gridava "al fuoco", poco prima. Grido che, quella notte, fu udito anche dallo stesso Fadda e dal commissario Fontana. Lei conferma questa versione.
- Certo.
- E dove abita?
- Vicino alla caserma, davanti al Consorzio Agrario.
- Deve sapere che nessun altro, in quella zona, ha sen­tito il grido. - Giuseppe mentiva: avevamo solo la testimonianza di Pirro. - D'altronde il nostro urlatore avrebbe dovuto fare il giro del paese, per essere sentito in piazza e poi, o prima, alla periferia est. Fra l'altro sarebbe stato più semplice per lui, visto che si trovava davanti al Consorzio Agrario, arrivare fino alla caserma dei pompieri e dare l'allarme direttamente. Non trova?
- Ma perché? perché avrei dovuto raccontare balle a Gavino?
- Perché noi pensiamo che sia stato lei ad urlare "al fuoco".
- Ah, ecco: prima incendio la campagna e poi dò l'al­larme: un genio!
- Lei appicca il fuoco per distruggere la villa, - intervenni - il cadavere della signora e ogni altra prova. Poi si accorge che il vento si sta alzando un po' troppo, è preso da un rigurgito di etica professionale e decide che si può fare in tempo a limitare i danni. Sul momento, però, non sa come dare l'allarme senza attirare l'attenzione sui suoi movimenti notturni. Allora va a gridare proprio sotto casa di Fadda e siccome abitiamo vicini, la sento anch'io. Preso dalla foga del momento, si dimentica che siamo in Gallura e grida "al fuoco" nel suo dialetto. Tra parentesi: se avesse usato l'italiano, o il gallurese, forse oggi non si troverebbe qui. Poi corre a riprendere la macchina e si dirige verso la caserma, si ferma lungo la strada e, quando vede arrivare Fadda, fa finta di incontrarlo casualmente. Mi segue? sto dicendo bene?
- Allora il matto è lei, non il dottor Casula. Io ero a casa, ho sentito il grido e sono uscito di corsa.
- Non si dimentichi - interruppe Giuseppe - che subito dopo l'incendio la sua auto è stata vista percorrere la strada di Cala Veronese, a tutta velocità, diretta verso il paese. Quindi proprio a casa non era. Fontana le ha esposto un'ipotesi sui suoi movimenti di quella notte: vuole smentire tutto o ammette che c'è qualcosa di vero?
- Io non posso dire più niente: a questo punto voglio un avvocato, perché è chiaro che cercate di incastrarmi.
- Mi lasci finire, Salvatore, mi stia solo ad ascoltare, non le chiederò più niente così l'avvocato non serve. Quando siete arrivati in caserma sapevate che c'era un incendio ma non dove fosse. O meglio: lei lo sapeva, ma non poteva dirlo. Il messaggio del peschereccio, che arriva pochi minuti dopo, diventa provvidenziale: sempre secondo la versione di Fadda, lei si fa un appunto, sceglie con sicurezza una delle mappe in dotazione al vostro centro radio, prende le coordinate e, senza esitazione, ordina che sia mandato un elicottero a sorvolare Cala Veronese.
- Ho fatto il mio dovere. Punto.
- Il problema è un altro: lei ha fatto il suo dovere ma lo ha fatto male. I casi sono due: o non sa leggere una carta nautica o era in malafede. Ho controllato personalmente le coordinate fornite dal peschereccio che, con tutta evidenza, si trovava molto più ad est di Cala Veronese.
- Commissario, i casi sono due: o lei è completamente inesperto di incendi o è in malafede. Sa da quante miglia è visibile un incendio? di notte?
- Non le ho controllate solo sulla carta, ma anche in mare. Risultato: gli uomini del peschereccio non avrebbero potuto vedere Cala Veronese neppure con un telescopio astronomico, tanto erano fuori zona.
- Allora io ero d'accordo col peschereccio. Dovevano segnalare un incendio, che non vedevano, per farmi un piacere. E' così?
- Loro vedevano un fuoco, ma era un altro: si ricorda? quella notte ci furono due incendi, non uno solo. E quello di Cala Veronese l'ha visto solo lei.
- Sì, mi ricordo: questo è vero, ci sono stati due in­cendi. Be', non so: forse nella fretta ho sbagliato a leggere le coordinate.
- E, casualmente, ha spedito l'elicottero proprio verso Cala Veronese? - interloquì Casula.
- Gliel'ho detto che quella è una zona a rischio. Sarà stata l'intuizione del momento, non so, forse un caso. Non lo so.
- Tutta la Sardegna è una zona a rischio, signor Deidda. Ma stia a sentire il commissario, credo che non abbia ancora finito.
- Quasi finito. Dopo un po' di tempo ci siamo incontrati. Da questo momento è iniziato uno strano balletto: prima ha pasticciato nel riferirmi gli orari delle segnalazioni, rendendo il più possibile confuso il suo racconto. Poi, sentiti i miei dubbi sulle motivazioni dell'incendio e sulla strana po­sizione del cadavere, ha iniziato un'opera di convincimento, poco riuscita come vede, sulla casualità di questo tipo di disastri. Infine, la sua ostilità verso la dottoressa Fresi. Devo dire che non ho ancora capito se lei temesse che la Fresi fosse un pericoloso testimone oculare o se si preoccupasse che i nostri sospetti cadessero su di lei, unica persona presente sul luogo del disastro ma, come solo a sua conoscenza, del tutto innocente. Forse un giorno ce lo spiegherà.
- Ma, porca miseria, tutto questo perché? Il motivo di tutto questo piano, voglio almeno un motivo. Perché dovevo ammazzare la signora Rinaldi? - Salvatore era in piedi, i pugni poggiati sulla scrivania di Giuseppe con le nocche bianche per la pressione.
- Questo ce lo dovrà dire lei, Deidda. Noi pensiamo ad un litigio tra amanti, per gelosia o qualcosa del genere. Abbiamo indovinato?
- Siete due figli di puttana. Ecco, almeno avrete qualcosa di concreto per accusarmi: oltraggio a pubblico ufficiale. Meritato però. Arrivederci, tornerò con il mio avvo­cato.
- Porti anche sua moglie, signor Deidda: dobbiamo sentire anche lei. - Casula, del tutto involontariamente, pronunciò la parola magica: dopo due ore di interrogatorio serrato, rivolto ad una persona che sembrava forte e sicura, non ci saremmo mai aspettati la reazione che seguì. L'eco della frase di Giuseppe non si era ancora spenta che vedemmo Deidda impallidire, tornare sui  suoi passi e ricadere pesantemente sulla poltroncina.
- Mia moglie non c'è, - biascicò come in trance - lasciatela in pace. Non c'è. Lasciatela stare.
Mezz'ora più tardi aveva confessato tutto, l'omicidio, l'incendio e quant'altro gli era stato contestato a proposito del caso di Cala Veronese.