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giovedì 31 maggio 2012

comunicato stampa

mmancano 15 visite per raggiungere la ragguardevole cifra di 10000 visitatori

chi dovesse riuscire a centrare il millesimo contatto a fare uno stamp e salvare l'immagine e spedirla alla redazione gpanizon@gmail.com  riceverà una copia cartacea di "adesso altre pecore" con dedica dell'autore e dell'editore 

SU FOGUcapitoli trentacinque e trentasei



35. Riacceso il cellulare lo trovai pieno di sms: mi cercava Casula, perché Onida era stato rintracciato; mi cercava Pirro, che evidentemente sapeva di Onida, perché voleva sapere se doveva andare a Cagliari; mi cercava la baronessa, ma il suo messaggio risultava criptico.Sulla scrivani altri messaggi cartacei: un giornalista chiedeva un'intervista, il sindaco lamentava ritardi, il Ministero esigeva un elenco dettagliato delle indagini in corso e una retrospettiva fino al 1960, il Tribunale di Oristano mi convocava per una deposizione su un caso di sequestro di persona vecchio di cento anni. La gita in montagna mi aveva viziato, tanto da non poter sopportare a lungo il caldo torrido dell'ufficio; perciò decisi di procedere invertendo l'ordine di importanza delle attività: dopo una doverosa telefonata a Casula, mi sottrassi a quel forno, diretto verso il fresco ventilato della villa dei D'Elia. Mentre salivo in macchina fui raggiunto da Pirro, trafelato e sudato come un bambino.
- Accompagnami, - gli aprii lo sportello della macchina - così ti riposi. Dove sei stato, a giocare a pallone?
- Macchè pallone: abbiamo arrestato due spacciatori. Uno è Tore Mereu, l'altro non lo conosci.
- Mereu sarebbe quel ragazzino biondo?
- Sì, il biondino.
- L'altro giorno l'ho visto: era in quel gruppetto che voleva linciare il pastore. Quelli che hanno avuto a che ridire con Fadda… a loro discapito. - Nicola sorrise, ma era teso: bastano poche curve per mettere sottosopra il suo stomaco. - Un giorno di questi gli voglio parlare.
- A chi?
- A Mereu: i suoi abitano lungo la strada di Cala Veronese e dopo la rissa lui andava blaterando accuse sull'incendio. Chissà che non abbiano visto davvero qualcosa.
- Dove siamo diretti.
            - Dai D'Elia.
- Novità?
- Mentre tu stai in vacanza, io lavoro: ho un informatore.
La conversazione, per forza di cose, languiva. Monologai sugli ultimi sviluppi delle indagini, soffermandomi in particolare su Onida, visto che, a quanto mi aveva comunicato, lo stesso Casula voleva spedire Nicola a Cagliari, in vece mia. Pirro doveva semplicemente prendere contatto con l'avversario di Marta e, senza mai neppure nominarla, farsi un'idea sulla posizione del ricercatore cagliaritano, come esperto della flora locale, riguardo all'incendio di Cala Veronese. Alla quasi certa richiesta di chiarimenti in proposito poteva rispondere che il sostituto procuratore voleva il suo parere perché conosceva - e apprezzava - il suo recente articolo. Con quella scusa doveva infine appurare a quando risalisse la sua ultima visita di studio sul luogo dell'incendio. Il breve colloquio telefonico con Giuseppe era stato sufficiente per mettere a punto questo semplice piano; i particolari del mio incontro con Bachisio glieli avrei riferiti in separata sede e, soprattutto, non per telefono.
Arrivato a Porto Rotondo e lasciato Pirro a rimettersi in sesto in un bar, mi avviai, come al solito a piedi, verso la villa baronale. Costeggiando la siepe di oleandri che delimitava il giardino, sentii la voce di Tiziana e risate femminili; al party di Ferragosto avevo notato un cancelletto che immetteva direttamente sulla rotonda della piscina: lo ritrovai, aperto. Entrai ripetendo "permesso, permesso" ad alta voce e procedendo lentamente, per dare il tempo alle signore - non si sa mai - di ricomporsi.
- Commissario, quale onore! Venga, venga: giusto in tempo per un aperitivo.
- Mi scuso di questa intrusione improvvisa e furtiva, ma ho sentito le voci e...
- No, no: la aspettavo, - strizzò l'occhio, ma di soppiatto - ha ricevuto il mio messaggio, vero? Venga, la presento: la signora Giglioli, le signorine Raimonda e Clara Ripellino, donna Maria Letizia Chiaromonte e Sofia Gardner, il famoso soprano. Don Giacomo Fontana.  - Porsi i miei compiti omaggi alle signore, soffermandomi in vista del prosperoso seno del famoso soprano che, in costume da bagno, rendeva anche meglio. Poi Tiziana mi trascinò in casa, in quel soggiorno che già conoscevo.
- Scusa sai: non ti sei offeso che ti ho dato del lei, ma pensavo...
- Immagino che faccia parte della strategia. Hai fatto benissimo, anzi, ho apprezzato molto la opportuna laconicità del tuo messaggio telefonico.
- Sono stata brava? - stavo rivalutando la baronessa: mi era sembrata la solita signora bene piena di capricci, ma c'era un che di infantile, nel suo carattere, una naturalezza assolutamente spontanea che relegava le pose snob al ruolo di pure finzioni, quasi una parte, recitata a memoria probabilmente per soddisfare le velleità del marito. - Mi sento tanto emozionata, sai? Ma ora ti devo dire cosa ho scoperto: ti ho già riferito che l'amante della Rinaldi era uno del posto?
- Mi pare di sì.
- So qualcosa di più. Adesso so anche che era una persona un po' così... al di sotto... come dire?
- Di un altro ambiente?
- Bravo! certe cose sono così imbarazzanti da dire. Ma pare che fosse un bel... un bel pezzo..., un bell'animale, dài che hai capito! - fece un risolino.
- L'amante di lady Chatterly. - Colsi un attimo di esitazione, poi il suo volto si illuminò:
- Sì, il film, bravo! Sì, sì, proprio tale e quale. Chissà, magari un marinaio, imbarcato su un grosso panfilo fermo in rada per tutta la stagione. Oppure il classico bagnino. Che ne pensi?
- Be', il giardiniere lo escluderei. - sorrisi solitario: Tiziana non poteva cogliere la mia duplice arguzia. - Brava comunque: non è molto, ma è già qualcosa. Nomi?
- Purtroppo no. È stato già difficile, sai, sapere queste poche cose. Ma tu non sai chi è?
- Come faccio a saperlo?! - altro attimo di smarrimento, ma questa volta senza illuminazione finale.
- Ma non immagini neppure chi potrebbe essere?
- Faremo delle indagini, comunque ti tengo al corrente.
- Fantastico! ti giuro che sarò una tomba.
- Allora la nostra collaborazione continua?
- Certo: sarà la vacanza più divertente della mia vita.
Lasciai la casa dei d'Elia, con la soddisfazione un po' meschina di chi ha appena fatto un regalo senza tirar fuori una euro.

36. Alle undici entrai nell'ufficio di Giuseppe e caddi esausto su una delle sue scomode poltroncine, crogiolandomi nel fresco innaturalmente profumato dell'aria condizionata. Il sostituto era in uno stato di agitazione repressa: era chiaro che c'era qualcosa di nuovo e che lui voleva centellinare per me la sorpresa. Adottai un atteggiamento distratto, per accrescere la sua gratificazione; mi fece raccontare per filo e per segno la mia avventura nel nuorese, senza fare commenti e continuando a andare e venire dalla sua scrivania al bocchettone del condizionatore. Finalmente dissi:
- Ecco tutto: che te ne pare?
- Non mi sembra un gran che: forse avevi ragione tu.
- Comunque mi ha fatto piacere rivedere Bachisio. Una strana sensazione, una specie di tuffo all'indietro.
- Adesso sta a sentire me. - Aveva alzato gli occhi per guardarmi in faccia e ora brandiva la lettera della compagnia di assicurazioni che mi aveva consegnato l'ingegner Rinaldi. - La busta! dov'è la busta?
- Io non ce l'ho.
- Ah, ecco qua! Il tuo ingegnere ti ha dato solo il foglio, vero?
- Sì.
- Tu sai che le poste ci mettono tempo a consegnare le lettere. E qualche volta le raccomandate ci mettono anche di più.
- Giusto, ma dove vuoi arrivare?
- Proviamo a fare un'ipotesi. Ammettiamo che l'ingegnere sapesse che la moglie l'aveva diseredato, ma non che aveva deciso di reintestare la polizza.
- Ti correggo: sappiamo per certo, da testimoni, che conosceva la nuova redazione del testamento. Invece è stato lui a dirci di aver ricevuto quella lettera da qualche giorno.
- Bravo! Allora ammettiamo che su quest'ultimo punto, non verificabile, abbia mentito, giocando d'attacco e non in difesa: prima ancora che qualcuno pensi a lui come possibile colpevole, tira fuori una lettera che lo accusa sul piano sentimentale, che secondo me ha poca importanza, e lo scagiona completamente su quello finanziario. Lui elimina la busta con sopra i timbri di partenza e di arrivo e ti consegna il foglio che reca una data di molto antecedente all'incendio. Si fida del fatto che noi saremmo rimasti colpiti dal contenuto e dai risvolti psicologici della faccenda: la busta diventava un particolare del tutto marginale. E così è stato.
- Mi pare che vada tutto bene. Continua.
- Non ha fatto i conti con il Ministero dell'Interno.
- Con chi?
- Con il Ministero dell'Interno. Guarda qua. - Mi porse una circolare del ministero, identica a quella che avevo visto pochi minuti prima sul mio tavolo. - Ora guarda la data del protocollo: il ventiquattro di luglio. Capisci ora: il ventiquattro di luglio! una circolare del ministero, raccomandata espresso, che arriva quasi un mese dopo la data di compilazione. Se io buttassi la busta, qualcuno potrebbe accusarmi di indolenza, visto che ancora non ho fatto quello che mi si ri­chiede. Invece no: io sono un funzionario modello, perché quella lettera è arrivata oggi e io ho conservato la busta. E, per converso, l'ingegnere potrebbe essere un cittadino bugiardo.
- Può aver mentito, va bene, ma perché?
- Come perché! Prima uccide la moglie perché pensa di intascare almeno l'assicurazione e poi trova la lettera: quest'ultima lo getta nello sconforto, è vero, ma almeno serve a scagionarlo.
- Stai correndo troppo. Lui era a Siniscola, da amici, per un vacanza fuori programma: credo non abbia pensato a farsi girare la corrispondenza per un periodo tanto breve. Secondo: la casa era bruciata, e dunque non poteva trovare una lettera al suo ritorno. Fra l'altro, durante la sua unica visita alla villa, un carabiniere gli è sempre stato vicino e ha riferito che non ha toccato nulla. Domanda: quando può avere ricevuto la lettera, se non prima di partire per Siniscola?
Giuseppe sembrava deluso. Ci pensò su per qualche istante. - Mi sa che hai ragione. ricominciamo tutto da capo.
- Aspetta un momento! - saltai in piedi in preda all'eccitazione. - Dobbiamo andare alla villa.
- Ma io non posso muovermi...
- Poche scuse, vieni con me: credo che dovrai rimuovere i sigilli. 

mercoledì 30 maggio 2012

SU FOGU capitoli trentatre e trentaquattro



33. Ci sedemmo su due panchetti di ferula che Bachisio aveva portato fuori dallo stazzo fin sul limitare del breve pianoro, a seguire l'unica chiazza di sole che ne illuminava uno spazio sempre più esiguo, malgrado l'ora e la stagione. Giovanni Maria era scomparso: credo che facesse da sentinella.
- Vuoi mangiare qualcosa? - tirò fuori dallo zainetto di pelle un pezzo di formaggio, un po' di spianata e una leppa  vecchissima, affilata come un rasoio. Poi girò dietro lo stazzo e tornò con una bottiglia impolverata. - Non lo so se è ancora buono, ce l'ho lasciato da qualche mese.
- Siamo solo noi?
- E in quanti dovevamo essere?
- Non hai una banda?
- Per fare la musica? - sorrise - no, non ho una banda: per fuggire non serve una banda. C'è quel ragazzo che ogni tanto mi dà una mano, se serve. Di lui mi fido.
- Dice che è tuo figlio.
- Così dice. Te l'ha messo il cappuccio?
- Sì, ma tanto lo so dove siamo: sul monte Gutturgios o sull'Uddé.
- Gliel'avevo detto che era inutile bendarti, ma lui ha insistito: si preoccupa di me.
- Ho visto la chiesetta di Nostra Signora di Buon Cammino, dall'altra parte della valle e ho sentito l'odore del mare: pensavo che stessi in Supramonte, più all'interno.
- Mi sposto sempre, domani sarò da un'altra parte.
- Ma di che cosa vivi?
- Non è che ho molte spese. Non pago le tasse e mangio poco.
Restammo in silenzio, un silenzio gigantesco e incombente. Bachisio guardava le quattro pecore inerpicarsi sul pendio del monte e tagliava il formaggio con movimenti prosciugati.
- Non ti fa male, adesso, vivere all'aperto?
- E chi te l'ha detto che vivo all'aperto? - mi guardava con un'aria vagamente ironica.
- Pensavo. - Di nuovo il silenzio. Ebbi la sensazione onnipotente di poter udire ogni rumore, da lì fino alla civiltà.
- Un incendio? - mi chiese: evidentemente mio cugino doveva avergli anticipato l'argomento del colloquio.
- Un incendio.
- E io a cosa ti servo?
- A sapere qualcosa. Non so ancora niente se non che è un incendio strano. - Raccontai tutta la storia di Cala Veronese, evitando accuratamente di propendere verso un'ipotesi in particolare, così da lasciare a Bachisio la libertà di scegliere quale consiglio darmi, se davvero ne fosse valsa la pena. Ascoltava distrattamente e senza fare domande. Mi interruppe una sola volta, quando, accalorato nella descrizione della villa bruciata, avevo involontariamente parlato a voce più alta: senza sollevare il polso dalla coscia su cui posava la mano, alzò il palmo e agitò per tre volte le dita, su e giù, per impormi di tacere. Restammo in ascolto per qualche secondo.
- Continua, ma a voce più bassa: quando non sento Giovanni Maria mi viene l'ansia. - Ripresi a parlare, senza più il senso di onnipotenza: quell'uomo poteva sentire il figlio muoversi lontano nella macchia e contemporaneamente seguire i miei discorsi, mentre a me il silenzio restituiva solo silenzio. Conclusi la storia, ma senza dirgli che l'idea di consultarlo era stata di Casula: ora che lo rivedevo, dopo tanti anni, non solo non me ne dolevo ma mi chiedevo come mai avessi aspettato tanto tempo prima di cercare di incontrarlo. Sul momento, sospeso sull'orlo di un dirupo, faccia a faccia con il brigante Ferru, pluriomicida ricercato da polizia e carabinieri, mi sen­tivo semplicemente contento; solo qualche mese più tardi riuscii a spiegarmi anche il perché di quella gioia, legata al senso di un incontro che si incuneava in mezzo alla mia fuga dai ricordi come un pilastro di maturata decantazione della memoria e, finalmente, di serenità.

34. - Su fogu, Grodde, este unu fattore de sa cultura..
- Ma cosa dici, Bachì!?
- Ho detto: "il fuoco, Volpe, è un fattore culturale".  
- Il sardo lo capisco, è il concetto che non mi convince: io sono un poliziotto e queste storielle della cultura pastorale non me le dai a bere. - Volevo che Bachisio non mi confondesse con il mio ruolo o, meglio, che non sovrapponesse mio padre a me: di confuso, in questo senso, bastavo io. - Se vogliamo che questo incontro serva a qualcosa, oltre a rivederci che é già molto, dobbiamo metterci d'accordo su una cosa: non posso ammettere giustificazioni a un delitto. Io non faccio l'avvocato.
            - Purtroppo.
- Purtroppo, ma è così. Cerco i colpevoli e non li giudico, né bene né male: non sono abilitato a farlo, ci pensano altri. Quindi la storia del codice barbaricino non la iniziare nemmeno.
- Devi avere pazienza con me, - di nuovo quell'aria ironica - bandito sono, ma bandito vecchio, di quelli della balentia. Un nonno ce l'avevi? sempre le stesse storie raccon­tano i nonni, e io pure, sempre le stesse storie, che vanno bene per Giovanni Maria che è un ragazzo semplice.
- A proposito, quanti anni hai?
- Chimbanta e chimbe. E chimbe. E atteri chimbe.
- Cinquantacinque e cinque e... sessantacinque?
- Sì.
- Accidenti!
- Sentire vuoi, o parlare?
- Va bene, parla, ma ricordati quello che ti ho detto.
Frugò nello zaino e ne trasse un libro, piuttosto malridotto. Me lo porse: era Pastori e contadini di Sardegna  di Maurice Le Lannou nella prima edizione, quella del '41, in francese. Un libro, scritto da un grande geografo, che ricordavo ancora molto attuale malgrado le ariose descrizioni di una natura incontaminata non rispondano più, purtroppo, alla realtà. Lo sfogliai e vi trovai chiose e lunghi pezzi di traduzione appuntati a margine, con una grafia minuta ed elegante, quella di mio padre. Guardai Bachisio.
- Sì, me l'ha dato lui: diceva che mi sarebbe servito leggerlo e che il francese si capiva bene. Malannu! vent'anni c'ho messo a leggerlo, altro che si capisce bene!
- Pensa che adesso esiste la traduzione italiana.
- Lo so, me la sono fatta comprare, ma non è lo stesso. Tutti quegli appunti di tuo padre servono a capire meglio. L'hai letto anche tu, di sicuro, ma forse non ti ricordi bene.
- Mi ricordo il punto principale: la contrapposizione tra contadini e pastori, tra nomadi e sedentari...
- ... che ha creato scontri tanto antichi che adesso non si sa nemmeno perché ci sono e proprio per questo non si può trovare più l'accordo, come quelle faide che si ammazzava e non si sapeva perché.
- Sì, mi ricordo. Ma cosa c'entra?
- L'incendio è l'arma del pastore contro il contadino.
- Ma quale contadino! in Costa Smeralda ci sono interessi che nemmeno te li immagini: case, ville, alberghi, multinazionali in lotta per un acro di terra!
- Allora non vuoi capire: il pastore e il contadino sono puppias 'e ludu (“bambole di fango”), come sos Mammuntones, o i pupazzi del pre­sepio...
-  Simboli?
- Simboli, giusto. Maniere di pensare una contro l'altra. Da quando è nato l'uomo. Poi si è dimenticato e allora le ha chiamate in modo diverso: pagani e cristiani, comunisti e fascisti. È come se vai sul colle e vedi tutto insieme, quando capisci questa cosa.
- Questa è filosofia, Bachisio, la tua filosofia: a me sembra di vedere soltanto gente che rapisce per soldi o che mette fuoco per arricchirsi.
- Se capisci quello che ti ho detto, trovi anche chi ha messo fuoco alla Gallura.
- Mi stai suggerendo di individuare la matrice politica dell'incendio, o continuo a non capire?
- Ti sto dicendo di provare a capire tutto l'insieme: non lo so il nome di chi ha incendiato quella villa. Forse posso provare a informarmi, ma sono fuori dal giro. Adesso non so nulla di nulla e non posso prometterti che lo saprò domani, o fra un anno. Però posso dirti che l'incendio è un'arma da pastore.
Imbruniva. Parlammo ancora e a lungo. Ma quando mi apprestai ad andarmene ebbi la sensazione di essere stato preso in giro: quel manto ideologico che Bachisio aveva steso sulla sua sostanziale omertà mi aveva deluso. Subivo profondamente il fascino di quella filosofia un po' primitiva perché Bachisio, che era semianalfabeta, l'aveva sì tratta da un libro, forse anche da discussioni con mio padre, ma poi doveva averci ragionato a lungo, con fatica e forse con dolore. Me ne aveva fatto partecipe, generosamente e, come capii solo molto più tardi, con la certezza di potermi aiutare. Eppure la sensazione era molto simile a quella che si prova dopo una lunga ricerca in biblioteca, quando non si è trovato nulla: hai imparato molte cose comunque, ma te ne renderai conto solo dopo qualche tempo. Al momento sei solo irritato.
Quando arrivai al limite della radura, Bachisio mi richiamò. Nella sua voce percepii una nota di ansia.
- Grodde, Grodde! - mi voltai e intravidi la sua figura, quasi scomparsa nel grigiore azzurro del crepuscolo. -Grodde, ma tue a l'ischisi che a babbu tou l'ana occhidu? (“ma tu lo sai che a tuo padre l’hanno assassinato?”)
- E perché credi che abbia fatto il poliziotto?
- Deo gratias

martedì 29 maggio 2012

SU FOGU capitolo trentuno trentadue



32. Arrivammo, infine. Sul costone di un monte, coperto da una fitta boscaglia, si apriva una gola stretta, tutta in ombra. Giovanni Maria aveva fermato l'auto in una radura, dove la stradina finiva, e mi aveva tolto il cappuccio. Ci avviammo a piedi, faceva fresco e c'era un'aria fine, di montagna, ma profumo di mare; guardai alle mie spalle e scorsi una chiesetta, lontana sulla cresta del monte di fronte a noi, oltre una larga vallata. Camminammo per dieci minuti, seguendo un sentiero appena segnato lungo la gola; uno stretto gomito, un breve tratto in discesa e davanti a noi, sul ciglio opposto del dirupo, comparve uno stazzo, apparentemente abbandonato. Mi fermai, colpito dall'intensità del paesaggio. Chi è andato sui monti della Sardegna sa cosa intendo: quel senso di sopraffazione della natura sull'uomo, spaventosamente arcaico. Sulle Alpi commuoverà la maestosità della montagna, ma solo sui piccoli monti sardi si ha la sensazione di poter sondare l'inviolabile segreto del preludio delle cose.
Una rupe granitica sovrastava lo stazzo, chiuso da ogni lato dalla roccia o dagli strapiombi: chi lo aveva costruito o odiava il mondo o lo fuggiva (forse è lo stesso). Un uomo, solo, accovacciato nel breve tratto di terra piana prospiciente la casa, mungeva una pecora, il capo posato sull'ano della bestia; Giovanni Maria scosse una frasca e l'uomo guardò nella nostra direzione, nell'attimo stesso in cui la frasca aveva iniziato a muoversi. Vidi il suo volto: anche i banditi invec­chiano, e Bachisio non faceva eccezione. Per aggirare la forra furono necessari altri dieci minuti di cammino, ma infine mi ritrovai, ansimante, faccia a faccia con lui: restai lì, impalato come un ragazzino, senza sapere cosa dire.
- Coment'istas, "Grodde"? mi parese unu 'ezzu! (“come stai, Volpe, mi sembri un vecchio”)- e sorrise. Riconobbi il sorriso. Nella mia memoria era custodita la figura di un uomo grande e alto, di un eroe ricciuto: davanti a me c'era un signore piccolo e attempato, gli occhi stanchi e il viso segnato da rughe di amarezza. Anche il ferro dei capelli, chissà come, aveva capitolato: Bachisio era quasi completamente calvo.
- Non sono poi così vecchio come sembro. - Risposi sorridendo e mi avvicinai di un passo. Ma non gli porsi la mano: non sapevo se se la sarebbe sentita di stringere la mano a un poliziotto. - È perché ho perso i capelli, ma vedo che sono in buona compagnia - con un cenno del mento indicai la sua pelata. - Tu solo ti ricordi del mio soprannome.
- Grodde ?
- Sì.
- Perché l'ho inventato io. Ma non ce l'hai più la faccia di grodde, di volpe giovane, come da ragazzo. Sese unu 'ezzu, Grodde. (“sei un vecchio, Volpe”)- E avanzò verso di me porgendomi la mano, ma poi mi abbracciò stretto.  

 31. Ricordavo un giovanotto robusto, con la fronte stretta incorniciata da crespi capelli neri e occhi mobilissimi. Un viso tipicamente sardo: zigomi alti e labbro superiore largo e convesso, preistorico, che separava un naso piccolo e dritto da una bocca sottile, che si apriva in un sorriso timido su una chiostra di denti bianchissimi. Qualche volta ero andato a cavallo con lui (in due sullo stesso cavallo) nella tenuta di Ozieri, quando veniva a parlare con mio padre o forse solo ad accompagnarlo a caccia: trent'anni fa, Bachisio Uras probabilmente poteva ancora fare a meno dei servizi professionali di papà. L'immagine che ritrovavo nella memoria era solo quella, insieme alla sensazione di due braccia forti che mi sorreggevano alla vita e al profumo primaverile della campagna, inquadrata tra le orecchie di Natalino, un morello vecchio e quieto, adibito a fare da nave scuola a noi ragazzi. Ero certo di aver rivisto Ferru al suo primo processo, circa dieci anni più tardi, ma di quell'episodio non conservavo memoria: eravamo andati solo per assistere all'arringa di papà - il processo era stato famoso - e Bachisio era lontano, in fondo all'aula, circondato dai ca­rabinieri...
Sentivo che la macchina, una vecchia Punto verde, si inerpicava su una strada bianca e sapevo che il mare non doveva essere troppo lontano: ne percepivo l'odore. Giovanni Maria, un ragazzo di venticinque, ventisei anni taciturno e gentile, subito dopo Oliena mi aveva coperto il capo con un cappuccio di tela, scusandosi con un "niente di personale, commissario" che sembrava ispirato da gentilezza innata più che da istruzioni ricevute. Lo avevo conosciuto un'ora prima, nel luogo stabilito da mio cugino per l'incontro, lungo la strada per Nuoro, al bivio di Bolotana, dove lo stesso Pietro mi aveva accompagnato al solo scopo di riempirmi la testa di raccomandazioni inutili. Da Bolotana a Nuoro, Giovanni Maria non aveva detto una parola, e solo dopo aver attraversato la città mi aveva avvertito che si sarebbe reso necessario il cappuccio.
L'uso di andare in giro in macchina bendati andrebbe coltivato: aiuta la concentrazione e ravviva la percezione dell'esterno. Io mi ero lasciato prendere dai ricordi, che si presentavano in ordine sparso e indipendentemente dalla mia volontà. Il volto di Ferru, le orecchie di Natalino, il vociare delle sorelline nella pineta dietro la casa. C'era un filo di guidogozzano in quei ricordi o erano tutti miei? l'insistenza e la persistenza della memoria della nostra casa di Ozieri corri­spondeva veramente a un periodo felice della mia vita? oppure era solo vernice, che andavo sten­dendo da anni a coprire quell'unica immagine, monotona, ossessiva, chiara fin nel minimo dettaglio anche se non vista con gli occhi. Soltanto evocata, tra i singhiozzi, da una frase ripetuta all'infinito da mia madre a tutti e soprattutto a me, che arrivavo quel giorno, quel minuto, quel secondo, dopo anni di assenza dalla campagna: "... e poi, poverino, cadendo si è sbucciato tutt'e due le ginocchia, cadendo, poverino, cadendo sui sassi...", mentre mio padre giaceva morto nella stanza accanto, con il petto squarciato da un pallettone da cinghiale.
- Le dà fastidio il fumo? - mi chiese Giovanni Maria, salvandomi dai miei pensieri.
- No, fumi pure. Grazie.
- Commissario, le posso chiedere una cosa?
- Se posso risponderle, volentieri.
- Lei conosce Bachisio da molto tempo?
- Da quando ero bambino.
- E lei lo sa perché si chiama Ferru ?
- Se non ve l'ha detto, forse ha piacere che non lo si sappia.
- No: lui dice che non se lo ricorda, sennò a me lo direbbe: io sono suo figlio.
- Ma davvero? non sapevo che Bachisio avesse figli. - Lo sentii arrossire, doveva essere timidissimo.
- Sono un figlio così, di quelli per caso. - Fortunatamente lui non mi sentì sorridere.
- Si chiama Ferru perché aveva i capelli talmente duri da sembrare fil di ferro: sua madre, tua nonna, lo chiamava così da bambino. Poi tutti lo hanno sempre chiamato Filu 'e ferru, ma pensando all'acquavite, credo, e non ai capelli. All'epoca del primo processo, del soprannome si im­padronirono i giornali che lo abbreviarono in Ferru, anche perché in questa forma risulta più adeguato a sintetizzare l'immagine del bandito sardo, forte e feroce.
- Ma babbo non è feroce.
- Lo so.

32. Arrivammo, infine. Sul costone di un monte, coperto da una fitta boscaglia, si apriva una gola stretta, tutta in ombra. Giovanni Maria aveva fermato l'auto in una radura, dove la stradina finiva, e mi aveva tolto il cappuccio. Ci avviammo a piedi, faceva fresco e c'era un'aria fine, di montagna, ma profumo di mare; guardai alle mie spalle e scorsi una chiesetta, lontana sulla cresta del monte di fronte a noi, oltre una larga vallata. Camminammo per dieci minuti, seguendo un sentiero appena segnato lungo la gola; uno stretto gomito, un breve tratto in discesa e davanti a noi, sul ciglio opposto del dirupo, comparve uno stazzo, apparentemente abbandonato. Mi fermai, colpito dall'intensità del paesaggio. Chi è andato sui monti della Sardegna sa cosa intendo: quel senso di sopraffazione della natura sull'uomo, spaventosamente arcaico. Sulle Alpi commuoverà la maestosità della montagna, ma solo sui piccoli monti sardi si ha la sensazione di poter sondare l'inviolabile segreto del preludio delle cose.
Una rupe granitica sovrastava lo stazzo, chiuso da ogni lato dalla roccia o dagli strapiombi: chi lo aveva costruito o odiava il mondo o lo fuggiva (forse è lo stesso). Un uomo, solo, accovacciato nel breve tratto di terra piana prospiciente la casa, mungeva una pecora, il capo posato sull'ano della bestia; Giovanni Maria scosse una frasca e l'uomo guardò nella nostra direzione, nell'attimo stesso in cui la frasca aveva iniziato a muoversi. Vidi il suo volto: anche i banditi invec­chiano, e Bachisio non faceva eccezione. Per aggirare la forra furono necessari altri dieci minuti di cammino, ma infine mi ritrovai, ansimante, faccia a faccia con lui: restai lì, impalato come un ragazzino, senza sapere cosa dire.
- Coment'istas, "Grodde"? mi parese unu 'ezzu! (“come stai, Volpe, mi sembri un vecchio”)- e sorrise. Riconobbi il sorriso. Nella mia memoria era custodita la figura di un uomo grande e alto, di un eroe ricciuto: davanti a me c'era un signore piccolo e attempato, gli occhi stanchi e il viso segnato da rughe di amarezza. Anche il ferro dei capelli, chissà come, aveva capitolato: Bachisio era quasi completamente calvo.
- Non sono poi così vecchio come sembro. - Risposi sorridendo e mi avvicinai di un passo. Ma non gli porsi la mano: non sapevo se se la sarebbe sentita di stringere la mano a un poliziotto. - È perché ho perso i capelli, ma vedo che sono in buona compagnia - con un cenno del mento indicai la sua pelata. - Tu solo ti ricordi del mio soprannome.
- Grodde ?
- Sì.
- Perché l'ho inventato io. Ma non ce l'hai più la faccia di grodde, di volpe giovane, come da ragazzo. Sese unu 'ezzu, Grodde. (“sei un vecchio, Volpe”)- E avanzò verso di me porgendomi la mano, ma poi mi abbracciò stretto.  

lunedì 28 maggio 2012

in attesa della lievitazione

. . . . r . . . . . . . . . . l
. . . . . . . . . . . . . . . .
s. . . . . . . . . . . . . . . 
. . . . . . . . . f . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . a . .
. . . . .a . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . .l. . . . . .
. . . . . e . . . . . . . . . .



nell'attesa dei capitoli che Pilon non mi manda vi chiederei
 di interpretare (copia e incolla e sostituisci i puntini con spazi e lettere)
quest'opera incompiuta trafugata  da Lievito



domenica 27 maggio 2012

SU FOGU capitoli ventinove e trenta




29. - E chi è questo Pitzalis?
- Ma come sarebbe chi è Pitzalis! Pietro, fai uno sforzo: è stato tuo compagno di scuola quanto mio e sicuramente tu lo vedi molto più di me, visto che abitate entrambi a Sassari.
- Va bene, va bene. E dove l'avresti visto?
-  Da Mokador. Stamattina.
- Mah! proprio non lo conosco. Ma non è che è uno dei paesi? venuto a Sassari di recente?
- Ho detto: tuo compagno di scuola. Tuo!
- Mai sentito. - Pietro non si ricorda sul serio, non lo fa per snobismo o per fedeltà al suo personaggio: le persone proprio non gli entrano in testa e i loro nomi ancora meno. - Avrei un appuntamento alle undici. Se la smettiamo di parlare di sconosciuti e mi dici cosa ti serve siamo un bel pezzo avanti.
- Che maleducato! Va bene, voglio un appuntamento: voglio parlare con Ferru .
- Con chi?! - questa volta aveva capito benissimo, ma credo che avrebbe voluto non capire o, ancora meglio, trovarsi decisamente da un'altra parte. Fece l'atto di premere un bottone immaginario, nascosto sotto la sua scrivania, come per chiamare la sicurezza o gli infermieri della neuro: una vecchia pantomima consolidata, inventata per le occasioni in cui l'interlocutore diceva fesserie o assurdità. - Ma tu sei diventato matto! È uno scherzo?
- No: è una cosa seria: devo parlare con Bachisio Uras, noto Ferru, latitante da vent’anni e da quattordici tuo assistito. Di quella specie di assistiti, abbondante e florida, che hai ereditato da papà. Diciamo che fa parte del mio credito.
- Ma davvero è una cosa seria? Perché vuoi parlare con Uras? Non so nemmeno se mi starà a sentire, ammesso che riesca a rintracciarlo.
- Vedrai che se gli dici che sono io a chiedere di vederlo non si farà pregare. Lo cercherei io stesso ma, come puoi ben immaginare, se sapessimo come trovarlo sarebbe già in galera.
- Ti serve per informazioni, o per una mediazione? Hai un rapimento per le mani? Non credo che si voglia prestare ancora a questo genere di cose.
- Informazioni, solo informazioni, nei modi e nei tempi che decide lui.
- Ma a che cosa ti serve?
- Lo vuoi sapere per curiosità o per lavoro?
- Lo voglio sapere perché altrimenti te lo cerchi da solo.
- Esplicito, incisivo, diretto. Ma non hai un appuntamento alle undici? la storia è lunga.
Trovò il tempo per farsela raccontare perché è curioso come una scimmia: è divertente l'organizzazione del suo cervello, perchè funziona come un teatrino di marionette. Lui ricorda, analizza e confronta qualsiasi situazione, ogni esperienza di vita, tutti i modi di tirare avanti o di cacciarsi nei guai che la varia umanità che frequenta ogni giorno gli mette a disposizione; ma senza associare facce e nomi, senza le persone vere, insomma. Proprio come un repertorio di canovacci teatrali. Non giudica mai, perché non saprebbe chi giudicare, ma capisce quasi sempre come va a finire. Così gli raccontai tutto, tralasciando solo le mie avventure amorose: più che la reputazione di Marta - tanto Pietro non si sarebbe ricordato il suo nome neppure sotto tortura - ci tenevo a salvaguardare la mia, che non ne usciva propriamente indenne.
- ... e in definitiva nessuno di noi è convinto che la Fresi abbia appiccato il fuoco. Eppure non ci sono elementi che conducano in direzioni diverse. Il che sarebbe niente, se non avessimo la necessità di chiudere un'indagine che altrimenti...
- Va bene, va bene, - interruppe la perorazione sul nascere, evidentemente colpito a sufficienza dalla stranezza del mio piccolo caso - ti cercherò Ferru. Ma guarda che Bachisio è invecchiato, non so quanto gli diano ancora retta, questi nuovi.
- Non mi serve un generale, mi serve un infiltrato. E un bandito alla macchia, specie se amareggiato, sa parecchie cosette e magari avrebbe anche voglia di dirle: sono suscettibili anche loro, no?
- Eeeh! eccome! - roteò vorticosamente la mano destra. Ma quel dottor Obino, perché non lo interroghi? Perché non lo fai convocare da Casula?
- E chi è questo Obino?
- Il ricercatore di Cagliari, come si chiama?
- O - ni - da: Onida, si chiama. E perché lo dovrei convocare?
- Il bello è che chiedi anche il perché! Ma come: secondo te una medaglia ha una faccia sola? Scusa sai, ma per la stessa ragione per cui ritieni ammissibile che la ricercatrice romana, Maria ...
- Marta Fresi.
-... ecco, Marta Fresi sia andata in Gallura e, scoperto il proprio errore, abbia bruciato la macchia per distruggerlo, per converso devi ammettere almeno in via ipotetica che il ricercatore cagliaritano... il dottor Onida, sapendo di essere in errore ed essendo a conoscenza della visita della romana, abbia bruciato lui la macchia, per impedire a lei di dimostrare la verità. Se parti da un presupposto devi seguirlo in tutte le direzioni: in questo caso, la guerra tra teorie deve avere al­meno due fronti. Perlomeno senti se ha un alibi.
- Sei un genio! Non ci avevamo pensato.
- Perché siete dei paesani. Ciao.
- Come ciao? E Ferru ?
- Tu pensi che adesso prendo il telefono e lo chiamo? al cellulare? o in villa? te ne puoi scordare. La procedura è un pochino più complicata. Vai, adesso: ti chiamo io quando so qualcosa.
- Presto?
- Prestissimo.

30. Se anche avessi voluto concedermi qualche giorno di vacanza, a cavallo di Ferragosto, il tempo afoso e la folla che andava invadendo ogni angolo di terra, sabbia, asfalto e mare disponibili, me ne avrebbero dissuaso. Rimasi solo, abbandonato da tutti: da Casula, impegnato in una serie di pranzi e cene familiari; da Pirro, coinvolto suo malgrado in un finesettimana lungo materano; da Onida, che non riuscii a rintracciare. Da Marta, per sempre.
Di conseguenza una dose di moderata allegria si accompagnò allo stupore, quando mi vidi recapitare a casa l'invito del barone d'Elia: un cartoncino stampato mi informava che barone e baronessa organizzavano un party di mezza estate nella villa di Porto Rotondo e che la mia pre­senza sarebbe stata gradita. R.S.V.P.: risposi di sì, che altro potevo fare? questi bagni nella mondanità si rivelano sempre occasioni formidabili per intercettare piccoli pettegolezzi, tessere di mosaici scomposti che possono fare comodo nell'esercizio del mestiere più indiscreto del mondo. E poi, malgrado una misantropia ormai incurabile, di tanto in tanto mi diverte partecipare a qualche ricevimento: in fondo sono stato educato a comportarmi come un perfetto animale da società. Il fatto di essere diventato solo un perfetto animale è un problema del tutto mio.
La sera del quindici agosto mi recai, elegante ma non troppo, pettinato ma non molto, sbarbato ma non di fresco, alla villa dei d'Elia, facendomi precedere da uno dei miei biglietti da visita - di quelli che il barone già conosceva - con un cortese cenno di accettazione. Arrivai con un ritardo eccessivo, frutto di calcolo e di lunghe ore di noia. Mi accolse la baronessa, in abito conturbante e sorriso smagliante: indossava un'ampia tunica bianca nella quale si concentrava l'insanabile contraddizione tra alto e basso, caldo e freddo, Nord e Sud: casto girocollo sul davanti e abisso di perdizione nella scollatura a V retrostante. More solito le gambe erano in mostra, sottoposte a un supplemento della mia attenzione da un paio di sandali dorati, con laccetti incrociati fin sopra la caviglia e tacchi a spillo. Un giorno dovrò studiare meglio la connessione, per me inevitabile, tra assoluto cattivo gusto e devastante attrazione sessuale.
Arrivai talmente ultimo che la cena era già cominciata. Il menu doveva essere stato architettato per colpire l'attenzione di qualche ospite "continentale", perché comprendeva soltanto voci di cucina nostrana, volutamente rustiche. In un angolo del giardino, lussureggiante di palme, agavi e oleandri, era stato imbandito un enorme tavolo rotondo sul quale troneggiavano taglieri di radica e vassoi di sughero pieni di porcetti e agnelli alla brace, interi o già tagliati a pezzetti; tra un vassoio e l'altro, a mo' di tovaglia, rami fronzuti di mirto e di lentischio. Malloreddos  al sugo di carne o al burro fuso, suppa cuadda  alla gallurese, pane frattau, piatti di caccia fuori stagione (dunque proveniente dal freezer del barone) e altre prelibatezze riempivano invece due tavoli rettangolari, dai quali ci si poteva servire prima o dopo aver preso posto in uno dei tavolinetti sparsi tra la veranda e il giardino o lungo il bordo della piscina illuminata che, in pianta, ricordava un fagiolo.
A parte gli ospiti forestieri conoscevo tutti. Ma, tanto per non sbagliare, il barone mi ripresentò a ognuno, utilizzando sempre il mio titolo nobiliare e mai quello professionale. Ero incline al perdono, anzi, mi era quasi simpatico, ma solo perché andavo metabolizzando due o tre bicchieri di un prodigioso miscuglio alcoolico che quattro perfettibili camerieri distribuivano con ostinazione, de­treggiandosi in quell'intrico di belle presenze. In un primo giro panoramico ne avevo notato cinque o sei più belle delle altre: una bionda fulminante ma nei cui occhi il lume dell'intelligenza si era spento da un pezzo, o forse non era mai stato acceso; due brune o, meglio, una bruna e una brunetta, entrambe abbronzatissime e inguainatissime in vestitini di stretch fuori moda ma adatti a sottolineare il proprio contenuto; una signora alta, sui quaranta, elegante e schiva, che non parlava italiano e che mi fu presentata come un astro del firmamento operistico internazionale.
Rintracciai due vassoi ricolmi di frutti di mare freschi: ricci aperti a metà, patelle giganti, cannolicchi e polpa di granchi e di capre di mare. Con un bicchiere di Vermentino in una mano e il piatto nell'altra mi apprestavo, impacciato ma deciso, a fare scempio di mitili e crostacei, quando la voce della baronessa interruppe la mia razzia:
- Signor Duca, anche lei è un'appassionato di queste cosine: sa che sono afrodisiache?
- Non lo sapevo, ma si può sempre sperimentare. - Va detto che ormai ero praticamente ubriaco.
- Ma che audace! proprio uno scostumato! - la baronessa, ridendo, simulava un imbarazzo inesistente.
- Scherzavo, signora d'Elia. Mi ha sorpreso mentre tentavo di farne scempio.
- Ma che dice! mi fa piacere trovare una corrispondenza di gusti con lei. Ma non potremmo darci del tu: io mi chiamo Tiziana.
- Volentieri: io mi chiamo Giacomo, ma non ti posso stringere la mano, come vedi. - La baronessa, Tiziana, rise e mi prese cautamente sottobraccio, dalla parte del vino.
- Vieni, sediamoci qui, prendo un piatto anch'io e ti faccio compagnia.
Dopo essersi servita senza parsimonia mi raggiunse a un tavolinetto rotondo che distava meno di due metri dal piatto dei frutti di mare.
- Lei non sa... no no, scusa: tu non sai, che dolore ha dato al mio Ercole l'incendio di Cala Veronese. Non fa che parlarne. Te ne occupi tu, vero? A che punto sono le indagini?
La tentazione di dirle di farsi i cazzacci suoi mi lambì pericolosamente labbra e cervello, ma era la padrona di casa e le concessi il beneficio del dubbio: forse non voleva estorcermi informazioni riservate per conto del marito, magari la sua era solo curiosità.
- Purtroppo niente di nuovo: capita spesso, in questo tipo di indagini.
- Ma si diceva in paese che c'era di mezzo una signora di Roma, una studiosa dell'Università, come si chiama?
La consegna era non parlare! Da sobri, mantenerla sarebbe stato più facile. In quello stato, la coscienza di questurino non più inappuntabile, corresse la formula in un più permissivo "non parlare troppo". In fondo, anche da ubriaco, potevo se non altro appurare se l'alta scuola del pettegolezzo della Costa disponesse in anteprima di particolari sulla mia tresca personale.
- E che altro si dice, in paese?
- Ah, non chiedermelo: la mia bocca è cucita. - Sfoderò un sorriso da Sfinge.
- A me dovresti dirlo, potrei convocarti in Questura. - Sorrisi, ma solo per nascondere la scarica di adrenalina che la risposta evasiva e il sorriso eloquente mi avevano procurato.
- Non sai niente dell'amante? - si era inchinata verso di me, sussurrando.
- Quale amante? - mimai la sua aria complice, mentre subivo un'altra stretta al cuore.
- Ma dài! l'amante della Grisi Rinaldi! - tirai un sospiro di sollievo - è possibile che voi della Polizia siate sempre gli ultimi a sapere le cose? Tutti, in paese, sanno che la signora della villa aveva un amante, anche se bisogna dire che questo tipo di storie non ci diverte più. Però, sai come capita, le voci circolano lo stesso e ti arrivano a tiro anche se non te le cerchi. Questa poi, era talmente lampante: il marito sempre fuori, una vita da separati in casa. La signora si era fatta l'amichetto, almeno così si dice.
Il mio interesse, fino a quel momento annientato dalla paura di essere io l'oggetto dei pettegolezzi, si risvegliò subitaneo.
- Chi era, lo sai?
- Eh, no. Purtroppo non si sa. Non che mi interessi più di tanto, ma resta il fatto che non si sa. Speravo me lo potessi dire tu, ma vedo che sei troppo disinformato. O troppo dritto? commissario Fontana, - agitò l'indice in segno di scherzoso ammonimento - non è che mi hai fatto parlare per motivi di lavoro? pensavo fossi fuori servizio. Non si prendono in giro le signore.
- Non mi permetterei mai. Anzi, sai che quello che mi hai riferito potrebbe essere molto importante? Sei sicura di non riuscire ad appurare qualcosa di più? 
- Davvero è importante? - sul suo viso si era dipinta un'espressione di emozione, disarmante in quanto profondamente sincera. - Che brivido! collaborare con la Polizia! ma non diciamo niente a Ercole, però.
- Stai tranquilla: sarà un segreto professionale. Ti puoi informare meglio...
- ...da stasera!
- ...e poi telefonami, quando vuoi. - Le diedi un altro dei miei biglietti da visita, aggiungendo a penna il numero di cellulare. Poi, adducendo come scusa il lavoro, me ne andai dalla festa. Avevo intuito, dallo sguardo della baronessa e dal contatto insistente che il suo ginocchio aveva instaurato con il mio, che da quel colloquio potevano nascere sviluppi di altra specie, ma avevo ancora meno voglia della prima volta di essere il suo Gennarino.

sabato 26 maggio 2012

SU FOGU capitolo ventotto

ecco il tenente Fontana nel suo yacht BETELGEUSE una trentina di anni fa 



28. La casa avita si trova in una piazza soleggiata, dove c'è sempre mercato, che si apre all'improvviso nella fitta trama dei vicoli della città vecchia. La solenne facciata incombe solitaria tra una fila di casupole a due piani. Credo che i tre quarti del palazzo siano stati dati in affitto, per lo più a uffici e agenzie, mentre mamma e mia sorella minore, con una cameriera e la nostra vecchia tata, occupano ancora buona parte del primo piano.
C'è qualcosa, negli odori, che impedisce di dimenticarli: ogni volta che entro a casa mia mi sorprende la familiarità di quell'odore d'infanzia. Ha un sottofondo di umidità polverosa cui si sovrappone il fluttuare incerto del Dior di mia madre e tracce olfattive più labili, che non riesco a distinguere. Ma tanto è forte la suggestione che mi sembra di percepire anche gli odori che dovrebbero essere scomparsi: cuoio di gambali da caccia, velluto umido di pioggia e sigaro Toscano.
Mia madre era una bellissima donna ed è una bella vecchia. Per me è sempre rimasta un mistero indecifrabile: so solo che è nata a Napoli e ho sempre immaginato che la vita che ha condotto l'abbia profondamente annoiata. Forse avrebbe avuto bisogno di più allegria, in quel palazzo buio, silenzioso, opprimente. Forse avrebbe avuto bisogno di più ossigeno, chiusa in quel mondo ristretto e provinciale, circondata dall'affetto, solido ma mai evidente, di un marito taciturno e pessimista e di quattro figli, io per primo, altrettanto pessimisti e taciturni. Ma nessuno di noi l'ha mai sentita lamentarsi: il suo scontento posso solo immaginarlo. Negli ultimi tempi ha deciso di essere vecchia e si comporta di conseguenza: vestiti neri con pizzo bianco al collo, veletta per andare in chiesa, lavoro all'uncinetto. L'ultima volta che l'avevo vista portava addirittura un paio di occhialini a pince-nez, trovati chissà dove.
Lei e Giulia, mia sorella, vivono nella stessa casa ma credo che non si vedano quasi mai: Giulia non è sposata, non è fidanzata, è simpaticissima e ha gli occhi più belli del mondo. Fa la farmacista e sono convinto che sia sempre stata innamorata di nostro fratello Ferdinando, il secondogenito. Lui, dal canto suo, a prescindere da qualsiasi considerazione etica al proposito - della quale è del resto assolutamente incapace - l'ha sempre considerata come una rompiscatole saputella (visto che legge libri), in cerca di fette più sostanziose di eredità (visto che è l'unica ad occuparsi di mamma).
Non amo parlare di Ferdinando e non amo parlare con Ferdinando, tant'è che non gli parlo da quindici anni, cioè dalla morte di nostro padre. In parte è lui la causa del mio disamore e della mia fuga; lui e un paio di zii che mi hanno disgustato in modo irreparabile in occasione della spartizione dei beni di papà, morto senza testamento per un banale incidente di caccia. Dicono.
Esiste anche un'altra sorella, o almeno come tale è registrata all'anagrafe. Si chiama Marina - come la trisnonna degli asciugamani - ed è sposata con un industriale di Bressanone, città dove abita e da dove non si muove mai, con grande conforto di noi tutti. Quanto Giulia è simpatica, lei è odiosa, e lo è a tal punto da far sembrare quel cretino di suo marito quasi un comico di varietà. L'unico grande pregio di Marina sono le splendide gambe, alla nefasta influenza delle quali deve sicuramente attribuirsi la mia monomaniacale attenzione per gli arti inferiori femminili.
Mentre sostavo sulla soglia, la chiave ancora infilata nella toppa, mi giunse alle spalle la vocetta di Antonia, la nostra tata, che rientrava dalla spesa:
- Giacomino poverino, ha due metri di codino.
- Antonietta poveretta, la sottana le va stretta. - Il fatto di essermi ricordato il mio pezzo di filastrocca, inventata tanti anni prima, mi guadagnò due sonori baci sulle guance, con tanto di pizzicotti preparatori.
- Meno male che sei venuto: la signora non sta bene. È triste e si deve essere ammalata.
- Cos'ha? È a letto? Perché non avete telefonato?
- Assolutamente niente, ho! Mai stata così bene. - Dalla porta del salottino rosa era comparsa mamma, che si puntellava su un bellissimo bastone nero con l'impugnatura d'argento, mai visto prima in casa.
- Ma ti sei fatta male alle gambe? - invece di invecchiarla, quel bastone le conferiva un'aria regale, sottolineando il suo portamento, sempre fiero, con la leggera curvatura che imprimeva al corpo sottile.
- No, cammino benissimo. Ma i vecchi è meglio che portino il bastone!

venerdì 25 maggio 2012

52enne


 in questa foto il ricco 52enne  enrico c. timona il suo swan da 17 metri e due alberi mentre stavamo veleggiando due mesi orsono, vicino all'isola del giglio con una certa svetlana e un certo schettino 


qui si capisce che sei un bel ragazzo e che potresti essere ancora un bel vecchietto

SU FOGU capitolo ventisette


oggi quel bell'imbusto di destra (Enrico C.)in questa tipica cartolina stintinese degli anni settanta, compie 52 anni, fa il barbeque e non ci ha nemmeno invitato alla festa



27. E così andai a Sassari. Poco convinto e per niente contento: Ferragosto era vicino e la città si andava riempiendo di turisti per la festa dei "Candelieri" nonché svuotando, per lo stesso motivo, di tutti quelli che non volevo incontrare. Andai solo: non portai Pirro perché non volevo passare a salutare mia madre con lui al seguito, ma nemmeno lasciarlo in macchina ad aspettarmi.
Con Sassari ho un rapporto difficile. Arrivo sempre dalla stessa strada, che si chiama Scala di Giogga, cioè "Scala di lumaca" e il nome è tutto un programma. Con i suoi tornanti in salita è l'entrata più scomoda e lunga, ma una volta era l'unica, per chi veniva da sud, e ci sono affezionato: en­trare dalla nuova tangenziale mi sembrerebbe come non andare a Sassari. Poi percorro l'ombroso viale Adua per raggiungere il centro e finire a cercare inutilmente parcheggio. Ma quel giorno trovai posto senza difficoltà: molti negozi erano chiusi per ferie e i pochi che circolavano lo facevano eviden­temente a malincuore, costretti da chissà quale, ineludibile evenienza ad affrontare il caldo torrido.
Dicevo del mio rapporto con la città: quando arrivo provo sensazioni confuse e vagamente piacevoli, appaganti come solo cose e luoghi legati all'infanzia e all'adolescenza sanno essere. Dopo un'ora vorrei già andarmene, quando i ricordi cominciano a diventare troppo nitidi. E poi mi irrita il fatto che, delle persone che incrocio per strada, almeno sei su dieci mi conoscano, mi fermino e mi intrattengano su argomenti che non so più, che non mi interessano più, che non mi appartengono più, anche se forse vorrei che non fosse così.
Entrai per un caffè in uno dei bar meno frequentati di piazza Castello, sperando di evitare incontri. Mentre aspet­tavo appoggiato al bancone mi sentii stritolare la chiappa de­stra da una mano evidentemente allenata all'uopo.
- Ebbé Maigret! Sempre in cerca di assassini?
- Marco, porca miseria, per poco non me la stacchi! Come stai? - Marco Pitzalis, donnaiolo incallito, intrattenitore da party e gran frequentatore di bar. Inoltre mio compagno di scuola per tutto il liceo. Insomma l'ultima persona che avrei voluto incontrare, anche se tutto sommato ero felice di vederlo. Ci abbracciammo e lui, come sempre, tentò di baciarmi scherzosamente sulla bocca.
- E tu come stai? Non ti si vede mai. Almeno avessi il tuo numero di telefono. L'altra sera ho organizzato un'arrostita, indovina dove? alla miniera abbandonata dell'Argentiera, con tanto di: quattro turiste tedesche quattro! Tilocca il macellaio (te lo ricordi, no?) con un bue intero e dulcis in fundibus, apparizioni di fantasmi per fare sciogliere le tedeschine!
- Che sfarzo! - esclamai, al minimo dell'entusiasmo.
- E tu non c'eri. Che sfortuna! - parlava come se non ci vedessimo da due giorni e non da almeno tre anni. - Cosa sei venuto a fare: a ossequiare Maman?
- Anche. Devo incontrare mio cugino, per lavoro.
- Tuo cugino Cabbu di ventu ? - Mio cugino si chiama Pietro Fontana, fra l'altro è un illustre penalista, ma viene detto "testa di vento" perché si dimentica tutto, specialmente i nomi delle persone. - Lo sai che l'altro giorno a una causa importante si è dimenticato il nome dell'assistito ed è andato avanti chiamandolo Dettori fino a quando Vostro Onore non gli ha chiesto chi fosse questo Dettori perché non lo trovava agli atti. - Risi perché, anche se forse Marco se l'era inventata, quella era un tipico pezzo del repertorio di Pietro. Riuscii a scollarmi da Marco solo dopo avergli offerto la colazione e dopo aver ascoltato le tristi lamentazioni sui suoi guai familiari e lavorativi, nelle quali si esplica la sua seconda vena, quella funerea. Confesso che, due minuti dopo, vedendo il vecchio amico Gianluca che risaliva il Corso, mi nascosi precipitosamente in un fresco portone.

giovedì 24 maggio 2012

SU FOGU capitolo ventisei



26. Marta tacque a lungo; ora sembrava meno confusa e molto concentrata. Soprattutto gelida. Alla fine si scosse e mi sibilò:
- Tu, maledetto figlio di puttana! Sei stato tu a combinare questo casino! Fai sempre così? ti porti a letto le testimoni per poi incastrarle? con chi hai parlato, chi ti ha detto di Onida?
- Vetrano. - Cercavo di mantenere la calma, almeno io, ben sapendo che tutto ciò che accadeva era solo colpa mia e che non potevo prendermela con nessuno, tanto meno con lei.
- Con Vetrano?! mi hai rovinata. Hai sentito? rovinata, definitivamente. Gli hai anche detto che sono stata a letto con te, oppure hai affisso un avviso in bacheca?
- Senti, ti ho supplicata di dirmi qualcosa di più. Pregata in ginocchio. Nessun altro, tanto meno un poliziotto, si sarebbe compromesso fino a questo punto: lo sai, no, che rischio il posto anch'io? Hai detto che credi in quello che fai, ecco: anch'io ci credo. Se non ti dispiace credo nella giustizia e anche nella legge. Lo trovi fuori moda? Trovi fuori moda il mio lavoro, o pensi che sia un mestiere odioso? Bé, che ti piaccia o no il settanta per cento del mio odioso mestiere consiste esattamente in questo: scoprire quello che le persone non dicono. Perché? Perché se non lo dicono spesso significa che lo vogliono nascondere, e se lo vogliono nascondere vuol dire che potrebbero esserne danneggiate. Lo sai cos'hai fatto, tacendomi come una mula della questione di Onida.
- No, e non lo voglio sapere.
- Ti sei compromessa, e parecchio: minimo sei un teste reticente. Sai cosa pensa Casula? E guardami, quando ti parlo! - Adesso nei suoi occhi c'era una vena di paura. - Pensa che tu abbia voluto distruggere la prova del fatto che Onida ha ragione e tu torto, distruggendo insieme anche una donna e un vecchio che non c'entravano niente. Sei soddisfatta?
- Ma non è così. Non è così! È tutto il contrario: - ormai gridava - non lo capite che così ha vinto Onida, che l'ultima parola l'ha avuta lui, e una volta per tutte. L'incendio ha distrutto le sue bugie, non la mia incompetenza. Cercavo le prove di una svista, e le avevo quasi trovate. Ma sua, non mia.
- Ma perché non me lo hai detto? Perché?
- Perché ho pensato che tu mi... - le ultime parole si persero in un bisbiglio.
- Cos'è che hai pensato?
- Che tu mi ritenessi responsabile dell'incendio. - Pronunciò  la frase tutta d'un fiato, chinando la testa.
- Ah! Lo vedi! - ormai gridavo anch'io, esacerbato dalla sua cocciutaggine - lo vedi che ho ragione. Ma porca miseria! non hai capito proprio niente: ti volevo aiutare, ti voglio aiutare. A tua disposizione: uno zerbino, altro che un poliziotto! Se mi avessi detto che esisteva un motivo, anche lontano, per cui qualcuno ti avrebbe potuto addossare la responsabilità dell'incendio, avrei fatto in modo di consigliarti per il meglio, invece di aggravare, involontariamente, anzi costretto, la tua situazione. Te l'avevo detto che cercavamo un assassino, non un ricercatore piromane.
La porta si aprì all'improvviso e Giuseppe rientrò. Ero vicino alla finestra e mi limitai a girare le spalle dedicandomi ad una sistematica contemplazione del paesaggio. Marta tentava di ricomporsi, ma aveva gli occhi pieni di lacrime e la voce ancora tremante di rabbia.
- Dottoressa Fresi, - il tono di Casula era severo, ma non sferzante - lei si rende conto che la sua situazione è tutt'altro che chiarita. - Assunse un tono distaccato, quasi burocratico. - Gli elementi attualmente a disposizione della Procura relativamente all'inchiesta sull'incendio doloso di Cala Veronese mi costringono a considerare l'eventualità di un suo coinvolgimento. Questo anche se, personalmente, la ritengo incapace di compiere un gesto tanto efferato, oltre tutto contrario alla sua etica professionale. La devo avvisare che lei sarà iscritta nel registro degli indagati e la prego pertanto di considerarsi a disposizione delle autorità. Le consiglio di trovarsi un buon avvocato; se vuole ricorrere a un professionista di qui, credo che il commissario Fontana sarà lieto di indirizzarla. Al momento, per quanto di mia competenza, ho finito.
Si salutarono. Mentre Marta usciva borbottai qualcosa anch'io. Sempre di spalle alla scrivania di Casula, lo sentii armeggiare con l'incartamento: il silenzio durò ancora qualche minuto.
- Cosa ne pensi? Le hai parlato quando mi sono allontanato?
- È una maledetta pazza! - mi voltai per guardare Giuseppe negli occhi: ero in ballo e dovevo ballare, - certo, si è messa nei guai, ma non ha appiccato lei il fuoco. 
- Come fai ad esserne tanto sicuro?
- Giusè, quello che sostiene è vero: Onida ha pubblicato quell'articolo e tutti l'hanno letto: che senso avrebbe distruggere la verità se questa già corre sulla bocca di tutti?
- È vero, ma fino ad un certo punto: metti che lei, invece di non trovare ciò che non voleva trovare, l'abbia trovato. Bello, chiaro e lampante. Può essersi fatta prendere dalla rabbia o dal rancore. Oppure aver pensato che l'articolo di Onida non aveva ancora compromesso le sue teorie, almeno non tanto quanto poteva farlo l'accertamento definitivo e incontrovertibile del suo errore. A maggior ragione se fosse stata lei stessa a compierlo.
- Poteva starsene zitta, e la vicenda sarebbe stata presto dimenticata.
- Non è quello che dice Vetrano.
- Va bene, mettiamo che abbia ragione tu. Però in tutto questo non vedo ancora alcuna spiegazione per la strana morte di Luisa Rinaldi. Ci stiamo completamente dimenticando di un ramo delle indagini, proprio quello che ci convinceva di più.
- Tra qualche giorno dovrei sentire anche l'ingegnere. Ma se gli elementi che abbiamo in mano sono solo questi, il lavoro svolto finora è senz'altro insufficiente. Non hai notizie dal fronte degli incendiari? Nessun altro elemento che possa scagionare la tua dottoressa Fresi? - Nei suoi occhi passò, fulmineo, un lampo ironico.
- No.
- Ne evinco che non sei stato a Sassari.
- No.
- Non trovi che a questo punto sia necessario?

mercoledì 23 maggio 2012

SU FOGU capitolo venticinque

in copertina marta fresi nel tunnel del vento di maestrale

25. Me ne stavo seduto in disparte, in un imbarazzato silenzio, mentre Casula conduceva il primo colloquio ufficiale dell'indagine. Aveva l'aria di uno che avrebbe molto di me­glio da fare: una tattica studiata che serve ad innervosire l'interlocutore. Vederla andare sempre miracolosamente a segno mi diverte. Ma questa volta l'interlocutore era Marta. Giuseppe si era incaponito, mi aveva voluto lì a tutti i costi, senza nemmeno stare a sentire quello che avrei voluto dirgli.
- Sono fatti tuoi, - aveva interrotto sul nascere il mio penoso tentativo di confessione amorosa: eravamo amici da anni e lui mi stava facendo un grosso favore, oltre a regalarmi una lezione di professionalità - hai condotto tu le indagini e, a quanto risulta, lo hai fatto molto bene. Non accetto discussioni.
Così ero stato costretto a incontrare Marta. All'apparenza non sembrava portare rancori. Al contrario: aveva esordito riferendo di essere stata trattata con garbo e gentilezza dal commissario Fontana e dai suoi uomini. Mi aveva anche stretto la mano, un sorriso di convenienza stampato sulle labbra e un rigoroso "lei" che tintinnava come ghiaccio in un bicchiere vuoto.
- ... è bene che si renda conto, dottoressa, che lei è l'unica persona a essere stata trovata sul posto, a parte i due cadaveri s'intende. - Casula era arrivato al dunque, ma non sapevo verso quale direzione volesse procedere. - Questo mero dato di fatto, di per sé, potrebbe comportare l'avvio di accertamenti riguardanti la sua persona e le sue attività. Inoltre risulta che, almeno in un primo momento lei si è rifiutata di rispondere alle domande del commissario, davanti a testimoni e...
- È vero. Sul momento non ho risposto, ma ero sconvolta. Non ci trovo niente di anormale: mi rendevo conto, con sicurezza e solo in quel momento, che il mio lavoro di anni era andato distrutto nell'incendio.
- Dottoressa, ci vuole ripetere il racconto dei suoi movimenti di quella notte?
- Sì. Lavoravo in camera mia...
- La sua camera è staccata dalle altre?
- Sì: è una piccola camera da letto, con uno scrittoio, una sedia e bagno indipendente. Molto comoda per quello che dovevo fare.
- E cioè?
- Ricerche sulla paleoflora gallurese. Ricerche del tutto personali, come ho già riferito al commissario. Ufficialmente mi trovo qui in vacanza.
- Continui, la prego.
- Ecco: proprio perché camera mia è staccata dal corpo della pensione, ho impiegato un po' di tempo per accorgermi che stava succedendo qualcosa. Sono andata a curiosare e ho saputo dell'incendio. Qualcuno parlava di Cala Veronese e, tanto per farvi capire cosa mi è successo, devo essere caduta in una specie di furore ipnotico: sono corsa in camera, ho preso le chiavi della macchina e sono andata via. Non saprei dirle esattamente che strada ho percorso e cosa ho fatto per tutte quelle ore. Ero molto confusa: ricordo solo che a un certo punto ho anche pensato di perlustrare rapidamente le aree che non avevo ancora visto, prima che il fuoco le raggiungesse. Capisce, dottor Casula: di notte e col pericolo dell'incendio! Mi sono scoperta una vena di isteria che non pensavo di avere.
- Qual è l'essenza del suo lavoro?
- In che senso scusi?
- In che cosa consiste la sua ricerca? quali sono le azioni che producono i dati? la metodologia di una ricerca di paleobotanica?
- Bé, non ne esiste una sola, ma ho capito cosa vuole sapere. Prima scelgo un'area che ri­tengo interessante, poi vado in ricognizione e schedo tutto quello che mi serve.
- Fino alle tre di notte?
- Non in ricognizione, ma per tutto il resto, se occorre, sì. Io credo in quello che faccio, e ci credo a tal punto da pagarmi da sola le mie ricerche. Si possono ben fare le tre di notte, non trova?
- Penso di sì, anch'io credo in quello che faccio. A proposito: è sicura dell'ora?
- No. Non avevo orologio e non ho neppure guardato la sveglia prima di uscire. Comunque era tardissimo. Forse anche più tardi delle tre.
- Fontana, è possibile che alle tre la notizia dell'incendio si fosse già sparsa?
- Non ci sono certezze in proposito. Il comando dei Vigili del fuoco ha ricevuto la prima segnalazione alle tre. Ma in certi casi la notizia corre sulla bocca della gente molto più velocemente che nell'etere. Tieni conto che la pensione si trova molto vicina a Cala Veronese e quindi all'incendio.
- Prima dell'incendio è sempre rimasta in camera sua?
- Sempre.
- Ma sarebbe potuta uscire dal cortiletto, scavalcando il muro a secco.
- Non ci avevo pensato. È piuttosto scomodo, ma sì, di­rei proprio di sì. Queste acrobazie sarebbero servite per andare ad appiccare il fuoco, è così?
- Diciamo meglio: se avesse avuto un motivo per farlo, avrebbe potuto. E senza essere vista.
- Come le ho già detto, - guardò me, senza espressione - non solo non avevo alcun motivo, ma l'in­cendio ha distrutto il mio lavoro di anni.
- Come giudica invece il lavoro del dottor Onida, del­l'Università di Cagliari? - Eccoci al punto. Era chiaro che Marta non si aspettava la domanda. Ero convinto che avesse chiamato il suo Istituto e, venuta a sapere della mia visita, si fosse in qualche modo preparata. Invece no. Al contrario: sembrava non fare alcun collegamento tra me e i suoi guai. Sul suo viso si leggeva, soprattutto, uno smarrimento che trovavo tenerissimo. Non rabbia, né rancore. Neppure paura, grazie al cielo, di quella specie di paura, via via più greve, che spesso precede le confessioni.
- Il dottor Onida... Giampiero Onida è... è un mio collega, molto preparato, molto bravo. Non abbiamo mai lavorato insieme ma... lo conosco bene, di persona.
- Dottoressa Fresi, non intendevo fare due chiacchiere sul dottor Onida. Le ho chiesto cosa pensa delle ipotesi di Onida e intendo dire: su Cala Veronese e relativa vegetazione. Se vuole possiamo anche essere più chiari: sulle critiche di Onida alle sue ricerche.
- Come fa a conoscere questa storia?
- Non mi sembra la risposta giusta da dare a un sostituto procuratore nell'esercizio delle sue funzioni - Casula sorrideva per l'ingenuità di Marta. Credo gli piacesse, tutto sommato. - Ciò che mi stupisce è il fatto che non sia stata lei a rivelarci questa circostanza, nonostante le insistenze del commissario Fontana. - Giuseppe si alzò come se si fosse dimenticato qualcosa di importante. - Scusatemi un momento. - E uscì dall'ufficio. Solo dopo molto tempo mi ha rivelato che aveva inteso deliberatamente lasciarci soli, per una specie di confronto all'americana, senza testimoni.