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sabato 28 aprile 2012

SU FOGU capitolo nove



 9.
Una lunga facciata bianca in­terrotta parsimoniosamente solo da quattro finestre con persiane verdi, alte. Il portone grande, di legno di noce, a due battenti. E su tutta questa superficie candida non un capitello, né una losanga o un ghirigoro: soltanto due panchine in muratura ai lati del portone - qui le chiamano pidrizze - e una cert’aria da casa di maggiorenti del villaggio sottolineata dall'affaccio sulla piazza principale del paese. Ho comprato questa casa lo stesso anno in cui ho preso servizio in Polizia in uno dei centri più popolosi della Gallura costiera, sul limitare dei Monti di Mola, che poi sarebbero quel paradiso per ceti emergenti o già emersi, che oggi chiamano Costa Smeralda. Fare il poliziotto in Sardegna, almeno nelle commedie all'italiana, è la punizione per antonomasia (...ti sbatto in Sardegna). Effettivamente, anche se in una zona di consolidata residenza turistica, non è che si sta propriamente tranquilli. Ma per chi ci è nato... Queste baggianate me le ripetevo per farmi passare i nervi, mentre me ne stavo immerso nella mia bella vasca con idromassaggio. Sono nato tra gli agi e ci sono cresciuto, per un po'. Poi mi sono spartanizzato, sono diventato brutto, vecchio e antipatico. Vecchio no: ho l'età di Deidda, credo, ma lui sembra più giovane e bello. Io ho una faccia lunga e grosse sopracciglia e qualche volta i baffi (ma li taglio subito perché cerco di morderne le estremità e alla fine della giornata mi fanno male i muscoli delle labbra). Una volta qualcuno mi disse che ricordavo Elliot Gould, ma a quei tempi avevo ancora tanti ricci ed ero molto giovane. A Gould, poi, i capelli gli sono rimasti. E comunque: degli agi tra i quali sono cresciuto coltivo ancora solo quello della sala da bagno. Nella mia grande casa, per il resto quasi vuota, ho ricavato una specie di impianto termale unendo il bagno originale, una camera e un ripostiglio. Funziona tutto, benissimo in ogni stagione, grazie all'enorme cisterna di acqua piovana, preesistente al mio arrivo, che si estende sotto la casa. Funziona, poi, senza ingente spesa grazie all'impianto di riscaldamento a energia solare, cui ho provveduto di persona. Ho fatto anche un antibagno, con una libreria, due poltroncine di vimini e qualche pianta, diciamo così, tropicale. I miei soldi di famiglia, che non sono tanti ma vivo pur sempre da solo, e parte di quelli che mi passa lo Stato mi permettono di dedicarmi con maniacale pervicacia all'arte del ritocco, su un insieme che peraltro oserei definire perfetto.
Erano le nove di sera e mi sarei dovuto decidere ad andare a dormire: nel letto, magari, e non nella vasca. In tutta la giornata non mi ero concesso un attimo di sosta: avevo congedato la Fresi, pregandola di rifarsi viva l'indomani mattina. Al bar dell'Associazione Velica - le avevo proposto - e non in Questura, nella speranza che modificando la forma ci avrei guadagnato in sostanza. Poi la lunga, snervante e come sempre inutile riunione congiunta col vice questore (manco a dirlo, Er Sola nun era potuto venì), il sostituto procuratore, i co­mandanti dell'Arma e dei Vigili del fuoco, due assessori rincoglioniti e il sindaco. Costui, un rampantello neanche quarantenne che pure aveva attraversato incolume le prime due repubbliche e si preparava per le successive, dotato di una collezione di giacche a quadrettoni che avrebbero fatto inorridire anche un direttore di circo, era visibilmente sollevato perché i luoghi più esclusivi della Costa, come Romazzino o Liscia di Vacca, non erano stati neanche lambiti dalle fiamme. L'unica cosa che lo preoccupava, adesso, era che le nostre di­chiarazioni alla stampa fossero "coordinate nell'ambito di una linea d'azione congiunta, che tenga in debito conto la gravità della situazione ma anche gli interessi della popolazione". Dal puntuale rapporto di Deidda era emerso che la maggior parte delle terre bruciate appartenevano ad un'unica persona. Siccome conosco i miei polli, avevo proposto immediati accertamenti in merito, così da appurare se ci potessero essere "interessi della popolazione" nel liberare terreni da vincoli paesistici o nel rialzarne l'indice di edificabilità deturpandone il valore naturalistico. E così, ovviamente, sulla soglia il sindaco mi aveva preso sottobraccio, simulando una confidenza inesistente, e mi aveva pregato di occuparmi personalmente di quest'ultimo dettaglio, dato che il proprietario in questione, il barone d'Elia, era persona di riguardo, cui il nostro Comune doveva tanto. Ed essendo io, per lui, "uno che conosce il mondo, noi ci intendiamo, caro Fontana", mi si poteva chiedere un favore, in nome della "stretta comunanza di intenti che ha sempre improntato le rela­zioni tra rispettive strutture di appartenenza".
Una giornata orribile, con una sola nota di colore locale: il giardiniere della villa che mi si era presentato in questura vestito come un rapper: intanto portava scarpe da ginnastica rosse, di quelle erte che sono un misto tra un'astronave e un panettone; senza calze. Ma soprattutto si era procurato una di quelle magliette con su scritto a caratteri cubitali mens sana in corpore sardo, che quell'anno promuovevano la Sardegna in tono turistico-autonomista. Nome: Pirastru Antonino; età: anni settantasei. Di faccia era un misto tra Carlo d'Inghilterra e un cavallo (in sintesi sembrava un cavallo). Si dichiarò subito colpevole del mucchio di frasche, ma non dell'incendio. Proclamò (si era alzato in piedi e aveva messo la mano sul petto) di avere due alibi e cioè l'amore per la sua terra e la gelosia della moglie, che non lo lasciava uscire mai di notte. Quando gli domandai se nel lavoro di Cala Veronese lo aiutasse qualcuno, mi squadrò come a dire che-ti-credi-che-non-ce-la-faccio, ma ammise che, sì, un nipote ogni tanto gli dava una mano, ma era partito tre giorni prima, imbarcato come marinaio aggiunto su un duealberi francese. Prima che si allontanasse gli chiesi il nome dei proprietari della villa. Mi rispose: - Sinibaldi, se non sbaglio.
Alle sette e mezzo avevo i nervi ma anche, in tasca, un prezioso elenco che accarezzavo mentalmente mentre mi avviavo a piedi verso casa. Mi sento più tranquillo, quando faccio degli elenchini; mi dà piacere aggiornali eliminando le cose fatte con un sottile rigo di penna. Questo non era un granché, tuttavia era pur sempre il frutto degli ultimi sprazzi di lucidità, tutti tesi ad una sintetica ricapitolazione. Pressappoco recitava così:
- piromani: possibile
- incendiari casuali (turisti, campeggiatori ecc.): altamente improbabile
- incendiari interessati (tipo lavoratori a cottimo per il rimboschimento): poco probabile
- incendiari professionisti guidati:
a. dal barone: accertare
b. da altri, comunque interessati al terreno: accertare
c. da altri per interessi ancora ignoti (v. il cadavere nella villa)
- altro ancora, tutto da vedere (Marta Fresi???)
Il punto "c" di "incendiari professionisti" conteneva ovviamente la mia vaga ipotesi di un delitto, in connessione più o meno diretta con l'incendio. La vaghezza dei contorni, purtroppo, rispecchiava alla perfezione lo stato delle cose: il mio idromassaggio aveva aiutato il corpo, come si dice, ma non lo spirito. 

14 commenti:

  1. Quarto controromanzo

    Emilia sogna.
    È Maria Paola Bonaparte, sorella prediletta di Napoleone, e posa completamente nuda su un triclinio per il celebre scultore veneto Antonio Canova all’insaputa del geloso marito, il principe Camillo Filippo Ludovico Borghese. Tra un colpo di scalpello e l’altro Canova le titilla il sedere per metterla di buon umore.
    “Ho freddo”
    “Ti avvicino la stufa”
    “Non posso avere un drappeggio? Che bisogno c’è di star nuda se ancora stai alla mano destra?”
    “Mi ispiro, mica faccio lapidi o gradini”
    “Voglio un drappeggio, altrimenti diventerò una Venere intirizzita, rigida, insomma neoclassica”
    “La rigidità sarà poi smorzata dalla naturale morbidezza con cui farò i drappeggi e il triclinio, ma non ora, adesso ti voglio nuda”
    “Hai già un’idea di come farai i drappeggi?”
    “Lo apprenderò grazie a numerosi studi in gesso e in terracotta finalizzati ad una elevatissima conoscenza del nudo umano”
    “A maggio mio fratello si fa incoronare Re d’Italia”
    “Tuo marito come l’ha presa?”
    “È geloso, è geloso di tutti, soprattutto di te, se mi becca qui nuda mi accoppa”
    “Allora devo sbrigarmi, intendo passare alla storia proprio con questa scultura, la chiamerò Venere vincitrice ma sarà nota a tutti come Paolina Borghese, la mia Paolina, l’amante del grande Canova”
    Le titilla il culo. Entra il generale napoleonico Camillo Borghese, li vede e va su tutte le furie.
    “Almeno un drappeggio, cazzo!”
    “Cielo, mio marito!”
    “L’anno prossimo ti porto a Guastalla”
    “No, Guastalla no, meglio la morte”
    “Perché?”
    “È in Val Padana, si muore di noia, c’è la nebbia”
    “Ma sarò Duca!”
    “Per poco, vedrai, mio fratello e Maria Luisa d’Asburgo-Lorena la incorporeranno nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla e tu finirai in Piemonte a mangiare fonduta valdostana”
    Camillo Borghese piange e tira su col naso.
    “Buona però la fonduta”, azzarda Canova.
    “Dipende dal caquelon e dal formaggio, non tutti sanno farla bene”, dice Camillo singhiozzando un po’ meno.
    “Io non l’ho mai mangiata”, fa Paolina rimettendosi le mutande.
    “Per degustarla ogni commensale ha una forchetta da fonduta di forma allungata con cui infilza un pezzo di pane che deve immergere nel formaggio fuso all’interno del caquelon, che poi sarebbe una casseruola. Una volta immerso il pane s’imprime alla forchetta un movimento rotatorio continuo cercando di non fare uscire il formaggio dal caquelon perché macchierebbe la tovaglia. Quando si ritiene che il pane abbia raggiunto la temperatura ideale lo si estrae dal formaggio fuso e se ne apprezza il gustoso sapore”
    “Non mi sembra troppo complicato”
    “Non lo è”
    “Potremmo provarci…”
    “Già”
    “Vai subito a cercare un caquelon”
    “Vado a cercare un caquelon”
    Camillo Borghese va a cercare un caquelon. Paolina si toglie le mutande

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  2. Enrico sogna.
    È Camillo Filippo Ludovico Borghese. Ha bisogno di un caquelon, compito difficile, non sa dove trovarlo. "Quasi quasi proverei a chiederlo a mammina".
    La sua mamma, Anna Maria Salviati, detta Marianna, non era una personalitá di spicco della sua famiglia, ma era una buona madre e aveva sempre cercato di rispondere ai bisogni di quel figlio egocentrico, interessato solo ad acquisire altri titoli nobiliari. Ma da quando era entrata in casa la nuora sconsiderata, le cose non andavano più per il verso giusto.
    Non aveva quindi intenzione di darsi da fare per trovare un caquelon per Camillo, dello Millo.
    '"Millo, quel Marcantonio di tuo padre, che io sappia, non ha antenati svizzeri e la mia famiglia, pur annoverando un tal Gottifredo fra i suoi antenati, non mi ha lasciato in eredità un tal manufatto. Dí alla tua mogliera che la fonduta può cucinarla in uno dei barattoli di quel suo amico scultore".
    Millo è affranto, aveva sperato di trovare un'alleata ed invece aveva come al solito rinfocolato i rancori familiari.
    Si consola cosí con sogni di gloria, conte, duca, principe, chissà... Dimenticando Paolina, il caquelon e soprattutto le mutande.

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  3. Millo è un nome proprio o un modo dialettale di dire "eccolo" (millo mì)? Grazie. Un lettore.

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  4. Emilia e Roscia28/04/12, 12:56

    Amore in cuccetta

    Dodi e Lady si erano conosciuti al mare, ai bordi di quell'immensa distesa di acqua dal sapore salato, che allarga l'orizzonte e pacifica gli animi. Una giornata al mare, il primo sole caldo dell'anno ed una spiaggia che iniziava ad assorbirne il calore.
    Lui era un perdigiorno, un tipico maschio. Anche la gita al mare poteva essere l'occasione per infastidire qualche femmina. 
    Lei, sensibile com'era al portamento maschile, lo notò subito e se ne invaghí nel tempo che una nuvola impiega ad oscurare il sole in una giornata ventosa.
    E cosí iniziò la loro storia d'amore, che dura ancora oggi, rallegrata da altre gite in campagna, al mare, in montagna e dai latrati che le accompagnano.
    "Dody, Lady, smettetela di far cagnara e andate a cuccetta!"

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    1. È in arrivo "Poligamia d'autunno'", delle stesse autrici.

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  5. Ma è una storia di cani? Io detesto le storie di cani.

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  6. Le storie di cani che se le leggessero i cani. Io sono Drupi e leggo le storie di Drupi. Un amico mio, che è Puffo, legge sorie di Puffi. Vittorio legge storie di gelatai. Bullacone di bullaconi. E via dicendo. Sennò dove andremo a finire?

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  7. Tutti i cani muovono la coda e tutti gli sciocchi voglion dir la loro.
    Dodi

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  8. E già, magari lo dicevano anche a noi "Stavolta ti sbatto in Sardegna". E poi... poi.

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  9. A me piacciono le storie di mutande, c'è qualcuno che me ne racconta una?

    Jean Culotte

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  10. Io ne so a centinaia

    Paola Tanga

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  11. E allora raccontacene una!

    Sli Pino

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