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venerdì 13 aprile 2012


in copertina Enrico con una  maschera di Ciocci , a Parigi nel lontano 1984

EPILOGO

Epilogo? Non credo, un epilogo è una cosa che viene dopo (epi) il discorso (logos), dovrei ricapitolare i punti principali e trarre le conclusioni, ma non lo faccio, voglio solo chiedere scusa. Innanzitutto perché le premesse sono state tradite, avrei dovuto scrivere un libro sulla metempsicosi, seppure in forma romanzata, con intreccio dialoghi eccetera, e invece mi è uscita una storia melensa a lieto fine, trita e ritrita, un tizio che perde la moglie e ne trova un’altra, da vergognarsi. Già per questo dovrei finire in galera o almeno alla gogna. Ma c’è di peggio e chi ha letto solo questo mio scritto certamente lo ignora.
Nel mio ultimo romanzo, il sesto da quando mi è venuta questa brutta malattia che mi costringe ogni mattina a scrivere almeno un capitolo di cose inutili (circa due cartelle), avevo giurato al lettore che non avrei più scritto una parola di fiction per il resto della mia vita, solo testi scientifici, solo roba seria (è il mio mestiere, so farlo). Il motivo è semplice: chi scrive storie inventa personaggi, è responsabile della loro vita come se fossero figli veri, solo che a un certo punto la storia finisce e pure loro finiscono, poveracci, alcuni dopo pochi giorni, altri dopo pochi istanti, perché ci sono sempre comparse che riempiono gli interstizi del racconto, creano colore, paesaggio. Se non ci sono lettori, come è capitato finora (li legge solo mia madre e qualche fratello), per loro è la fine, non esistono più. Quindi basta romanzi, così avevo scritto, basta mettere al mondo creature letterarie e poi abbandonarle per sempre tra le righe. E invece l’egoismo ancora una volta ha prevalso, non ho fatto a tempo a finire l’ultimo capitolo di Olmo Montano che già iniziavo il primo di Adesso altre pecore. Me ne vergogno e mi scuso, soprattutto con le due Adeline e gli amici di Ponte Sisto, il protagonista non ha un nome e forse si salverà. Non ne sono sicuro, e poi c’è il soprannome, Megliodigiotto, quindi non so. Lucie, povera Lucie, solo poche righe di vita e di nuovo nei meandri, perché?
Questa volta ho cercato di evitare il peggio con un espediente letterario tratto dalla tradizione orale, dalla fiaba, ho scritto e vissero sempre felici e contenti che in teoria dovrebbe allungargli la vita. Ma non mi illudo, serve solo a metter tranquilla la mia cattiva coscienza. L’unica vera soluzione per prolungargli la vita è che il libro diventi un best seller internazionale, sia letto da migliaia di persone facendo rivivere ogni volta ai protagonisti la loro storia d’amore. Ma non mi faccio illusioni, leggerà solo mamma, tra un mese leggerò io e poi fine del viaggio, i fratelli si sono stufati, dicono che scrivo troppo, non hanno tempo.
E vissero sempre felici e contenti si dice ai bambini per fargli credere che dopo va tutto bene, non ci saranno incidenti, malattie, divorzi, litigi, così i bambini dormono tranquilli e i genitori possono starsene un po’ in pace, poveretti. È una formula molto vaga che permette a chi ascolta di continuare la storia come meglio crede e ai personaggi pure, devono solo stare attenti a non ammalarsi, ad evitare scontri frontali e roba del genere. È una formula che indica una porzione di tempo indefinito, non una durata oggettiva, quindi quel sempre significa per l’eternità, ma bisogna sforzarsi d’esser felici e non è semplice.
Anzi è difficilissimo, quasi impossibile. Bisognerebbe rinunciare ai giornali e alla TV perché è pieno di cose tristi, bisognerebbe chiudersi in casa, non uscire mai, non parlare con nessuno, e già, altrimenti ti raccontano subito i guai del mondo o anche soltanto le loro tragedie familiari, mogli finite nel famoso dirupo di Canale Monterano, intossicazioni da anatra muta, irritazioni cutanee da trementina. Però se uno sta sempre chiuso in casa dopo un po’ si deprime, per forza, è inevitabile. Quindi deve uscire, affrontare la vita, col rischio di finire malinconico come i poeti. I poeti sono il genere professionale più triste dopo gli scrittori.
Forse avrei dovuto scrivere e vissero sempre relativamente felici e contenti, insomma con alti e bassi ma in sostanza felici. Avrei dovuto farlo, anzi potrei farlo, basta aggiungere relativamente, però qualcosa mi frena. Forse il fatto che la formula è sempre stata così, non si può cambiare, è troppo universalmente nota, l’attenzione andrebbe subito sul relativamente e si andrebbe a pensare che in realtà si voglia coprire una realtà diversa, fatta di continui litigi sul menù (polenta o baccalà) o su eventuali tradimenti (perché non m’ami più? c’è un altro?), magari anche problemi economici dovuti alla crisi del mercato delle nature morte con conseguente taglio ai detersivi e ai ricambi dell’aspirapolvere.
Ho chiesto scusa al lettore e ai personaggi (adesso mi dispiace soprattutto per Lucie, potrei piangere), era il minimo che potessi fare, ma questa volta non voglio fare una promessa che so di non mantenere. Mi dispiace, continuerò a scrivere, è più forte di me, come ho detto è una malattia, non se ne esce facilmente, dovrei fare una terapia o iscrivermi agli scrittori anonimi. Ormai ho capito che la scrittura provoca dipendenza come l’alcol, la droga, il fumo, il cibo, se ne deve assumere ogni giorno una dose, altrimenti si sta male, ma la cosa peggiore è che la dose cresce ogni giorno di più. All’inizio, quando ho cominciato, scrivevo solo dalle sei alle otto del mattino, poi tornavo ad essere una persona seria, uno studioso rispettato, un marito affettuoso, un padre. A poco a poco le cose sono cambiate, al terzo romanzo ero già arrivato alle nove, al quarto è accaduto l’irreparabile, dopo la piscina invece di iniziare a fare il mio lavoro riprendevo il romanzo, limavo, correggevo, aggiungevo, impostavo il capitolo successivo. Evidentemente la dose del mattino non bastava più. Giunto alla fine del settimo romanzo mi sento talmente intossicato che vedo ormai solo l’abisso, la fine.
Quindi non giuro di smettere come ho fatto l’altra volta, è impossibile, i fumatori incalliti sanno di cosa parlo, ma credo che lo capiscano tutti, perché tutti abbiamo dei brutti vizi, e se son vizi è difficile farne a meno. Potrei buttare tutti i computer di casa, come il tabagista butta le stecche di sigarette, potrei buttare anche penne e matite, la carta, persino la carta igienica e lo scottex, ma finirei lo stesso a incidere le mie frasi sulla corteccia della palma.
Continuerò a scrivere, inizierò già domani l’ottavo romanzo, so già l’inizio, Questo ha tutta l’aria d’essere un romanzo storico, così inizia, mi è venuto in mente in piscina, il titolo provvisorio è Piro piro piccolo

7 commenti:

  1. soi veradaderamente triste de este epilogo
    en cambio el Ciocci es un gran figo

    Pilar

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  2. Pilar llora amargamente, dispénseme Pilar

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  3. que historia sentimental y triste, pero tambièn emocionante y fascinante
    Maria Jose

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  4. Pero, afortunadamente, tiene un final feliz

    Miguel... son siempre mi

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  5. Allora, cosa facciamo, cosa facciamo?

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  6. Decidete voi, io vi ho già ammattonato per due mesi colle pecore, Pilon è un vulcano d'idee, a me va bene tutto, anche un racconto di Ged con protagonisti Friedrich, Ludwig e Arthur... immagino già l'inizio:
    "Il vento impetuoso gettava la pioggia sulle grandi finestre dello studio. Sui quadri, i vecchi libri, le carte geografiche appese alle pareti, danzavano le ombre di una vecchia poltrona, una massiccia scrivania, una lunga lampada spenta, animate dal fuoco che ardeva nel caminetto. Friedrich attizzava il fuoco, lavorava alacremente con le pinze e soffiava a pieni polmoni.
    In quella penombra misteriosa, scintillante ed oscura, arcana e protettiva, Ludwig sorseggiava un tè bollente e profumato e godeva, era felice, voleva con tutte le sue forze che il tempo si fermasse, che tutto il tempo si contraesse in quell’istante presente. Oppure, socchiudendo gli occhi, immaginava che tutto ciò che percepiva, immagini, suoni, profumi, si dilatasse in una galleria infinita, eterna"
    Lettori, lo volete il racconto di Ged?

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  7. "Sì, lo voglio" (chi ho sposato?...)

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