in copertina Enrico con una maschera di Ciocci , a Parigi nel lontano 1984
EPILOGO
Epilogo? Non
credo, un epilogo è una cosa che viene dopo (epi) il discorso (logos),
dovrei ricapitolare i punti principali e trarre le conclusioni, ma non lo
faccio, voglio solo chiedere scusa. Innanzitutto perché le premesse sono state
tradite, avrei dovuto scrivere un libro sulla metempsicosi, seppure in forma
romanzata, con intreccio dialoghi eccetera, e invece mi è uscita una storia
melensa a lieto fine, trita e ritrita, un tizio che perde la moglie e ne trova
un’altra, da vergognarsi. Già per questo dovrei finire in galera o almeno alla
gogna. Ma c’è di peggio e chi ha letto solo questo mio scritto certamente lo
ignora.
Nel mio
ultimo romanzo, il sesto da quando mi è venuta questa brutta malattia che mi
costringe ogni mattina a scrivere almeno un capitolo di cose inutili (circa due
cartelle), avevo giurato al lettore che non avrei più scritto una parola di
fiction per il resto della mia vita, solo testi scientifici, solo roba seria (è
il mio mestiere, so farlo). Il motivo è semplice: chi scrive storie inventa
personaggi, è responsabile della loro vita come se fossero figli veri, solo che
a un certo punto la storia finisce e pure loro finiscono, poveracci, alcuni
dopo pochi giorni, altri dopo pochi istanti, perché ci sono sempre comparse che
riempiono gli interstizi del racconto, creano colore, paesaggio. Se non ci sono
lettori, come è capitato finora (li legge solo mia madre e qualche fratello),
per loro è la fine, non esistono più. Quindi basta romanzi, così avevo scritto,
basta mettere al mondo creature letterarie e poi abbandonarle per sempre tra le
righe. E invece l’egoismo ancora una volta ha prevalso, non ho fatto a tempo a
finire l’ultimo capitolo di Olmo Montano
che già iniziavo il primo di Adesso altre
pecore. Me ne vergogno e mi scuso, soprattutto con le due Adeline e gli
amici di Ponte Sisto, il protagonista non ha un nome e forse si salverà. Non ne
sono sicuro, e poi c’è il soprannome, Megliodigiotto,
quindi non so. Lucie, povera Lucie, solo poche righe di vita e di nuovo nei
meandri, perché?
Questa volta
ho cercato di evitare il peggio con un espediente letterario tratto dalla
tradizione orale, dalla fiaba, ho scritto e
vissero sempre felici e contenti che in teoria dovrebbe allungargli la
vita. Ma non mi illudo, serve solo a metter tranquilla la mia cattiva
coscienza. L’unica vera soluzione per prolungargli la vita è che il libro
diventi un best seller internazionale, sia letto da migliaia di persone facendo
rivivere ogni volta ai protagonisti la loro storia d’amore. Ma non mi faccio
illusioni, leggerà solo mamma, tra un mese leggerò io e poi fine del viaggio, i
fratelli si sono stufati, dicono che scrivo troppo, non hanno tempo.
E vissero sempre felici e contenti si
dice ai bambini per fargli credere che dopo va tutto bene, non ci saranno
incidenti, malattie, divorzi, litigi, così i bambini dormono tranquilli e i
genitori possono starsene un po’ in pace, poveretti. È una formula molto vaga
che permette a chi ascolta di continuare la storia come meglio crede e ai
personaggi pure, devono solo stare attenti a non ammalarsi, ad evitare scontri
frontali e roba del genere. È una formula che indica una porzione di tempo
indefinito, non una durata oggettiva, quindi quel sempre significa per l’eternità,
ma bisogna sforzarsi d’esser felici e non è semplice.
Anzi è
difficilissimo, quasi impossibile. Bisognerebbe rinunciare ai giornali e alla
TV perché è pieno di cose tristi, bisognerebbe chiudersi in casa, non uscire
mai, non parlare con nessuno, e già, altrimenti ti raccontano subito i guai del
mondo o anche soltanto le loro tragedie familiari, mogli finite nel famoso
dirupo di Canale Monterano, intossicazioni da anatra muta, irritazioni cutanee
da trementina. Però se uno sta sempre chiuso in casa dopo un po’ si deprime,
per forza, è inevitabile. Quindi deve uscire, affrontare la vita, col rischio
di finire malinconico come i poeti. I poeti sono il genere professionale più
triste dopo gli scrittori.
Forse avrei
dovuto scrivere e vissero sempre relativamente
felici e contenti, insomma con alti e bassi ma in sostanza felici. Avrei
dovuto farlo, anzi potrei farlo, basta aggiungere relativamente, però qualcosa mi frena. Forse il fatto che la
formula è sempre stata così, non si può cambiare, è troppo universalmente nota,
l’attenzione andrebbe subito sul relativamente
e si andrebbe a pensare che in realtà si voglia coprire una realtà diversa,
fatta di continui litigi sul menù (polenta o baccalà) o su eventuali tradimenti
(perché non m’ami più? c’è un altro?), magari anche problemi economici dovuti
alla crisi del mercato delle nature morte con conseguente taglio ai detersivi e
ai ricambi dell’aspirapolvere.
Ho chiesto
scusa al lettore e ai personaggi (adesso mi dispiace soprattutto per Lucie,
potrei piangere), era il minimo che potessi fare, ma questa volta non voglio
fare una promessa che so di non mantenere. Mi dispiace, continuerò a scrivere,
è più forte di me, come ho detto è una malattia, non se ne esce facilmente,
dovrei fare una terapia o iscrivermi agli scrittori anonimi. Ormai ho capito
che la scrittura provoca dipendenza come l’alcol, la droga, il fumo, il cibo,
se ne deve assumere ogni giorno una dose, altrimenti si sta male, ma la cosa
peggiore è che la dose cresce ogni giorno di più. All’inizio, quando ho
cominciato, scrivevo solo dalle sei alle otto del mattino, poi tornavo ad
essere una persona seria, uno studioso rispettato, un marito affettuoso, un
padre. A poco a poco le cose sono cambiate, al terzo romanzo ero già arrivato
alle nove, al quarto è accaduto l’irreparabile, dopo la piscina invece di
iniziare a fare il mio lavoro riprendevo il romanzo, limavo, correggevo,
aggiungevo, impostavo il capitolo successivo. Evidentemente la dose del mattino
non bastava più. Giunto alla fine del settimo romanzo mi sento talmente
intossicato che vedo ormai solo l’abisso, la fine.
Quindi non
giuro di smettere come ho fatto l’altra volta, è impossibile, i fumatori
incalliti sanno di cosa parlo, ma credo che lo capiscano tutti, perché tutti
abbiamo dei brutti vizi, e se son vizi è difficile farne a meno. Potrei buttare
tutti i computer di casa, come il tabagista butta le stecche di sigarette,
potrei buttare anche penne e matite, la carta, persino la carta igienica e lo
scottex, ma finirei lo stesso a incidere le mie frasi sulla corteccia della
palma.
Continuerò a
scrivere, inizierò già domani l’ottavo romanzo, so già l’inizio, Questo ha tutta l’aria d’essere un romanzo storico,
così inizia, mi è venuto in mente in piscina, il titolo provvisorio è Piro piro piccolo.
soi veradaderamente triste de este epilogo
RispondiEliminaen cambio el Ciocci es un gran figo
Pilar
Pilar llora amargamente, dispénseme Pilar
RispondiEliminaque historia sentimental y triste, pero tambièn emocionante y fascinante
RispondiEliminaMaria Jose
Pero, afortunadamente, tiene un final feliz
RispondiEliminaMiguel... son siempre mi
Allora, cosa facciamo, cosa facciamo?
RispondiEliminaDecidete voi, io vi ho già ammattonato per due mesi colle pecore, Pilon è un vulcano d'idee, a me va bene tutto, anche un racconto di Ged con protagonisti Friedrich, Ludwig e Arthur... immagino già l'inizio:
RispondiElimina"Il vento impetuoso gettava la pioggia sulle grandi finestre dello studio. Sui quadri, i vecchi libri, le carte geografiche appese alle pareti, danzavano le ombre di una vecchia poltrona, una massiccia scrivania, una lunga lampada spenta, animate dal fuoco che ardeva nel caminetto. Friedrich attizzava il fuoco, lavorava alacremente con le pinze e soffiava a pieni polmoni.
In quella penombra misteriosa, scintillante ed oscura, arcana e protettiva, Ludwig sorseggiava un tè bollente e profumato e godeva, era felice, voleva con tutte le sue forze che il tempo si fermasse, che tutto il tempo si contraesse in quell’istante presente. Oppure, socchiudendo gli occhi, immaginava che tutto ciò che percepiva, immagini, suoni, profumi, si dilatasse in una galleria infinita, eterna"
Lettori, lo volete il racconto di Ged?
"Sì, lo voglio" (chi ho sposato?...)
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