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sabato 12 maggio 2012

SU FOGU capitoli dicciotto e dicciannove


in copertina potete riconoscere  il volto dell'assasino

18. Due giorni dopo il vento fresco di nord-ovest era calato e un levante appiccicoso nascondeva lo smalto del cielo dietro una patina caliginosa, densa di nubi e ora minacciosa di piovaschi. Percorrevo senza fretta la provinciale diretto ad una cena "di lavoro" dai Casula. Questi strani incontri erano diventati, col tempo, una piacevole consuetudine: sua moglie preparava una buona cena e riempiva la serata di chiacchiere, di solito incentrate sui misfatti che il marito, quand’era in vena di fai-da-te, perpetrava ai danni del mobilio o degli elettrodomestici di casa . E Giuseppe, di solito così taciturno, non faceva che torcersi dal ridere, lacrimando e sussultando. Credo di non aver mai visto un marito guardare sua moglie con tanta simpatia. Quando la serata sembrava conclusa, dieci minuti nello studio o sul patio erano sufficienti a esaurire la parte lavorativa.
Tenevo tutti i finestrini aperti e tentavo di abbozzare quella sintesi estrema che Casula avrebbe preteso. Spesso succede: i dati si erano accumulati, ma la situazione generale permaneva invariata. Sul tenebroso Rinaldi ci eravamo procurati una conferma telefonica da parte della compagnia assicuratrice e una e-mail di risposta dalla Procura milanese. La prima scontata, la seconda un po' meno: la situazione finanziaria del Rinaldi offriva imprevisti spunti di riflessione. Fino a qualche anno prima il bel Riccardo spiccava fra i venti imprenditori edili più in vista di tutta la Lombardia; malgrado ciò era stato a mala pena sfiorato dalle inchieste dell’ormai dimenticata faccenda di “mani pulite”. Il motivo, che i colleghi milanesi suggerivano per chiarirmi meglio la faccenda, non credo avrebbe aiutato il già zoppicante amor proprio dell’ingegnere: negli ultimi due, tre anni i suoi affari erano andati talmente male da farlo precipitare in un limbo di oblio legale, in fondo alla lunga lista di possibili indagati, forse tanto in fondo da non essere più visibile. Voci attendibili - di origine bancaria, ovviamente - spiegavano la débacle semplicemente con una pro­gressiva attenuazione della sua fattiva solerzia: niente di strano o di losco, dunque. Un quadro esauriente e molto significativo dal quale però, per la diabolica astuzia (o la limpida since­rità?) con cui l'ingegnere aveva condotto il nostro colloquio, la sua versione dei fatti non era neppure scalfita, anzi…
L'altro fronte delle indagini fruttava ancor meno. Il questore, finalmente comparso ad allietarci con il suo acume, aveva ipotizzato un colpo de mano da parte der compratore delle tere der barone, teso a ribassarne ulteriormente la valutazione. Anche se l'ipotesi proveniva da un coglione, fui comunque costretto a chiedere lumi a D'Elia, sempre in virtù delle nostre chiare affinità elettive. Sentito informalmente per telefono, il vecchio pescecane aveva escluso tale eventualità, visto che teneva da quasi un anno "appesi all'amo" (l'espressione è tutta sua) tre possibili acquirenti, ma nessuno di loro poteva dirsi certo della sua decisione finale al punto da rischiare la galera per ribassare un prezzo ancora vago. Il tutto mentre una lunga e meticolosa visita di Pirro all'Ufficio Tecnico del Comune confermava, nel quadro dell'ufficialità, quanto il barone aveva riferito nel primo colloquio. Da qui a escludere - come sempre in questi casi - l'esistenza di un quadro ufficioso, ne correva: gli accordi sotterranei di questo genere, che riguardano una minuziosa e criminosa pianificazione territoriale a latere di quella legale, nell'ultimo trentennio avevano deciso, sempre incontrastati, i destini rosei della speculazione e quelli, meno rosei, delle coste sarde.
Mi ero riservato, per tenermi in allenamento, un supplemento di indagine sulle attività della dottoressa Fresi nella notte dell'incendio. Avevo estorto con discrezione ad un'albergatrice fin troppo rispettosa della privacy dei propri clienti, la conferma dell'orario della precipitosa uscita di Marta e quindi, indirettamente, della sua versione dei fatti. Rimaneva in ombra tutto il periodo precedente la sua comparsa all'ingresso, durante il quale, a sua detta, sarebbe rimasta a lavorare in camera. La camera in questione, scelta “per la sua tranquillità”, era una sorta di foresteria con ingresso indipendente su un cortiletto - ingentilito da un fico ombroso e da un vecchio pozzo coperto da un gigantesco oleandro - separato dall'aperta campagna soltanto da un basso muro a secco. In conclusione: se la Fresi ne avesse avuto motivo, sarebbe potuta uscire non vista dalla sua camera, appiccare il fuoco, tornare con moderata fretta alla locanda e quindi comparire per apprendere, stupefatta prima e sconvolta poi, la notizia del disastro.

19. Ma il vero disastro era la labilità di un'indagine basata su impressioni. Il polso della situazione lo può fornire il tempo che quella sera passai a lavorare con Casula: un'ora circa, un'enormità per il nostro standard, senza contare le tre ore passate tra cena e chiacchiere. Dagli archivi della memoria comune erano state rie­sumate le carovane di carri a buoi che trasportavano derrate per famiglie immense, dirette alla villeggiatura in uno sperduto villaggio gallurese. Giuseppe, che era il più anziano dei tre, ricordava bene la esasperante lentezza di quei convogli, che conce­deva ai bambini il tempo per partite di pallone e di cavallina, senza il rischio di perdere i carri: anche dopo due ore si era comunque sicuri di poterli raggiungere senza affrettarsi troppo, accolti da premurose tate con limonata e biscotti. I “grandi”, nonni, mamme, papà e zii, disdegnavano la via carovaniera e si concedevano il lusso di una traversata per mare, imbarcati su pescherecci fetentissimi. Arrivavano a destinazione ridotti da far pietà, per il mal di mare e le liti familiari, acuite da due giorni e una notte di strettissima convivenza. E ogni cosa, naturalmente, era più bella. La ricchezza, il turismo di massa, il benessere, la luce elettrica, le strade asfaltate ci avevano colti tutti impreparati, noi gattopardi isolani, patetici e quasi estinti, inclini a rimpiangere il privilegio perduto dell'esclusività. Ma certo anche gli altri, quelli senza privilegi prima e senza privilegi dopo, sui quali l'ondata del benessere era passata alta, senza neppure spruzzarli.
- Secondo voi quanti di questi incendi sono appiccati solo per senso di rivalsa? - Giuseppe aveva interrotto le rievocazioni. Era seguito un lungo silenzio, mentre il tetto della veranda rimandava il rumore sordo delle prime gocce di una pioggia greve. Quasi nello stesso istante era mancata la luce. Giuseppe e io ce ne andammo nello studio, illuminato da quattro candele fissate con la loro cera su un vecchio vassoio di peltro. Casula si era riservato per il dopocena una primizia: i risultati dell'autopsia. Secondo lui erano apprezzabili dal punto di vista tecnico e soddisfacenti per le indagini: ero d'ac­cordo sul primo punto, meno sul secondo. Sul cadavere erano state condotte analisi approfondite - non so e non voglio sapere come avessero fatto - che dimostravano in modo inequivocabile come la signora avesse in­gerito una buona quantità di sonnifero e fosse stata colpita alla testa da un corpo con­tundente. All'apparenza si trattava di dati molto promettenti. Però: qualsiasi medico sarebbe stato in grado di dimostrare che Luisa Rinaldi era in pratica nelle stesse condizioni di assuefazione di un tossicodipendente. Di conseguenza, il fatto che il medico legale ritenesse “ingente” la quantità rilevata non equivaleva a dire che sarebbe stata sufficiente a ucciderla - nell'ipotesi del suicidio/omicidio - e neppure a intontirla in modo tale da farle perdere il controllo su se stessa - nell'ipotesi dell'inci­dente. Prove testimoniali: il marito, forse il personale di servizio, altri parenti, la casa farmaceutica svizzera, un medico curante. Infine io stesso, che avevo potuto con­statare di persona la consistenza del micidiale arsenale farmacologico della Rinaldi.
C'era pur sempre il colpo in testa. Ma qui i dubbi vennero allo stesso Giuseppe, che accennò alla sua celebre imitazione di uno dei più insigni principi del Foro nostrani, colto nell'atto di illustrare con apparente ingenuità la sorte di un malcapitato che si trovi per caso, e senza potersi muovere, in una stanza dove i tre quarti del tetto stiano crollando. In effetti ricordavo chiaramente di aver camminato su un tappeto di calcinacci, stracotti e ridotti a fanghiglia, che ancora scricchiolavano sotto le suole. Se poi si fosse arrivati a dimostrare che il crollo del tetto non era stato causato dalle fiamme, ma dalle cascate d'acqua lanciate dagli aerei (ipotesi non peregrina), ne sarebbe conseguito che il trauma cranico poteva essere successivo non solo alla morte della signora, ma anche alla conclusione materiale dell'incendio. Il delitto rimaneva una possibilità, ma non era una certezza. Tanto correre conduceva a un punto morto dal quale, temevo, si sarebbe potuti uscire solo riconducendo l'inchiesta nel solco della pura casualità.
La pars destruens del colloquio durò ventidue mi­nuti. Per i restanti quarantotto circa, alla fioca luce delle candele, procedendo in una cordata di idee, riuscimmo a ricomporre un nuovo fronte di indagini, essenzialmente teorico ma non privo di ri­svolti pratici immediati.
- Come puoi ben vedere, - concluse Giuseppe - non siamo assolutamente fermi, anzi: se tu non avessi trascurato certi particolari, saremmo già parecchio avanti. Punto primo: alibi di Rinaldi. Al momento conosciamo solo i suoi moventi, o meglio, i suoi possibili moventi.
- Punto secondo. Non so nulla dei moventi di Marta Fresi...
- ...che per questo non ha nemmeno un vero e proprio alibi. Punto terzo: l'unico modo per essere davvero sicuri di aver imboccato la strada giusta è escludere ogni al­tra possibilità. Ne convieni?
- Non ho capito.
- Sì che hai capito: la storia della "questione privata", come la chiami tu, reggerebbe molto meglio se si potessero escludere le vie maestre, quelle dei professionisti del fuoco.
- E come si fa? Scusa sai: ci vuole più tempo a fare questo che non a esaurire le indagini sull'omicidio, sempre che ci sia stato. I carabinieri...
- I carabinieri non c'entrano. Sei tu che lo devi fare. Io non voglio sapere come, ma solo che l'hai fatto, e in fretta.
- Allora ho capito: no!
- Non fare tanto lo schizzinoso: i pentiti sono pentiti.
- Ho detto no!
- Vabbè. Ma pensaci. Domani ti preparo quello che serve per gli accertamenti: si dovrà andare a Siniscola, per sentire gli amici di Rinaldi. E forse si dovrà andare a Roma, se ti sembra ne valga la pena, per sapere qualcosa di più sulle ricerche della dottoressa Fresi. E dovresti andare a Sassari? O è sempre no? Ma per favore! mettiamo che l'ultimo punto è fa­coltativo, ma molto conveniente.
Ci lasciammo sulla porta di casa, mentre catinelle di acqua tiepida si rovesciavano sui monti di Mola.

11 commenti:

  1. Nemmeno un commento? Sì, lo so che questi due capitoli sono quelli tipici dei gialli per allungare il brodo. D'altra parte comprenderete che alcune leve del giallo devono essere occultate tra chiacchiere che fanno distrarre il lettore. Per cui, una volta che siete arrivati a leggere questo commento, rileggete i due capitoli con più attenzione, oppure leggeteli veramente (so che molti lettori sono tali solo per la sezione dei commenti: io non mi faccio illusioni!). Vedrete che vi saranno utili per il prosieguo.

    A proposito dei gattini neonati: li avete mai provati in umido con le patate? Mia nonna aggiungeva salvia e un pizzico di zafferano ma a mio padre non piaceva. Sono questioni di gusto sulle quali non mi permetto di entrare. Pilon

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  2. Sono fuori, ad Oslo fino a venerdì, ma ci sono tante wifi (ora sul treno e sicuramente in albergo) e quindi continuerò a leggere come sempre sul mio bellissimo ipad (alla faccia di Marco).

    Roscia l'altro giorno mi hai dato una sola mitica. Ho anche riprovato a chiamarti senza successo...

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  3. mi sorprende che la mia ex amica Emilia non commenti l'agghiacciante ricetta di Pilon a base di gattini, Pilon si sa è un cinico briccone, ma Emilia! Comincio a credere che i suoi ideali sian solo fumo per le upupe, gracchiar di corvo, traccie di anaconda, e che dietro quelle apparenze si nasconda un mostro!
    Roscia

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  4. ha ha ha era scritta con tanta poca convinzione che non c'era bisogno di intervenire. si sa che Pilon ama i gatti ma ne ha un po' paura...

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  5. comunque qui non si vedono capitoli e mi tocca tornare su facebook dai miei veri amici...

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  6. sono riuscita a vedere le navi vichinghe, che belle!

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  7. e i vichinghi?
    Roscia

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  8. i vikinghi sono troppo alti per me

    emilia

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  9. I vichinghi sono veramente alti ma biondi, con bellissimi occhi azzurri e simpatici

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  10. ai vichinghi non gli tira

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  11. tutta invidia!
    Roscia

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