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lunedì 21 maggio 2012

SU FOGU capitolo ventitre



23. Tanto per la cronaca: il martedì successivo sarei partito per Roma anche se con Marta non fosse accaduto nulla. Ma quasi tutto, in quella specie di avventura estiva, era stato un fallimento. Per colpa mia, naturalmente, perché sono uno di quelli che dovrebbero stare sempre e soltanto da soli. E che se lo meritano. La domenica mattina, non erano nemmeno le otto e Marta già se ne andava da casa mia, sbattendo prima la porta e poi il portone. E il commissario Fontana rimaneva, per l'appunto, solo, in un letto vuoto, a rimuginare sulla sua idiozia.
Per tutta la notte, mentre Marta dormiva al mio fianco, avevo rivoltato gli ultimi, straordinari avvenimenti con il mestolo bucato del mio pessimismo: dato che non sono un Adone - mi dicevo - una bella donna può venire a letto con me solo se ha un secondo fine. In questo caso, il secondo fine è lampante. Alla luce di questo assunto mi ero convinto che tutto era peggio, e che poteva solo peggiorare: avevo aspettato con impazienza che Marta aprisse gli occhi soltanto per esporle questo disarmante concetto:
- Noi sospettiamo che l'incendio sia la copertura di un delitto. Se è così e tu non conosci la Rinaldi, o il marito, non puoi essere colpevole. Ma se così non è e l'incendio non c'entra con la sua morte, tu fai sempre parte della lista dei sospettati.
Avevo aggiunto che non ero neppure certo che non conoscesse la Rinaldi, e che le sue omissioni mi irritavano come uomo e mi insospettivano come poliziotto. Ero contento di averlo detto, mi sembrava di aver portato a termine un compito: la giusta punizione per la mia presunta ingenuità consisteva nel ferirla ferendomi. Solo quando lei, senza dire una parola, si era rivestita con calma e se n'era andata, definitivamente, mi ero reso conto che ero stato più duro del voluto e più fesso del consentito.
Il resoconto del mio week-end spiega almeno perché, il martedì successivo sul volo Olbia-Roma, il mio stato d'animo non fosse eccellente. Vestito e incravattato di tutto punto fingevo di divorare con interesse malriposto lo stampato della compagnia aerea con le regole per salvarsi la vita in caso di incidente, al solo scopo di non salutare un avvocato che avevo già accuratamente evitato prima dell'imbarco. Per quanto uno si sforzi, tuttavia, quella lettura non può durare più di cinque minuti senza attirare l'attenzione commiserevole del vicino di posto. Scaduto il termine, passai dunque a fingere un sonno repentino e catalettico. In realtà continuavo a pensare a Marta ma soprattutto al suo professore, Luigi Vetrano, ordinario di Botanica all'Università di Roma "La Sapienza", che avrei dovuto incontrare un paio di ore dopo.
Per una fortunata coincidenza il professore non era in ferie e aveva consentito a ricevermi "anche subito o in un giorno qualsiasi della prossima settimana". Ma questa pronta accon­discendenza non era frutto di pura fortuna: Casula, che aveva organizzato l'incontro, non solo conosceva personalmente Vetrano ma lo aveva agevolato in vari modi durante una missione scientifica di molti anni prima nella Gallura interna. Giuseppe mi aveva raccomandato di evitare qualsiasi accenno alla possibilità di un coinvolgimento diretto di Marta: accertamento di prove te­stimoniali, questo dovevo addurre a pretesto delle indagini, e solo se interrogato in proposito. Non ce n'era alcun bisogno: mi sentivo un verme, altro che prove testimoniali. Mi ero quasi impegnato con Marta a non rivelare nulla e invece andavo a spifferare tutto alla persona meno adatta, l'ultima che sarebbe dovuta venire a conoscenza della sua attività extra-lavorativa. Contavo sulla discre­zione, magari involontaria, del professore, perché a quanto ricordava Casula, Vetrano era una persona schiva e distratta, dedita solo ai suoi studi.
Pirro mi aveva accompagnato all'aeroporto, approfittando di quella mezz'ora per raccontarmi del suo viaggio a Siniscola. Era rimasto lì tutto il fine settimana per verificare l'alibi di Rinaldi e aveva avuto gioco facile: un'allegra brigata di tardone milanesi, annoiate come bambini abbandonati davanti al telegiornale e senza telecomando, lo aveva rincorso per strada pur di liberarsi del peso di qualche succosa indiscrezione sull'ingegnere, e ricavarne in cambio di inedite. Due gli elementi fondamentali, a parte le chiacchiere: Rinaldi non era della partita, la sera dell'incendio, perché impegnato, a sua detta, in una solitaria battuta di pesca subacquea notturna. Si era rivisto verso le due del mattino, alla villa di una delle tardone, giusto in tempo per rimpiazzare al tavolo del bridge il dottor Tal dei Tali, ormai prostrato dal sonno. Il che dimostrava, calcolati empiricamente i tempi del tragitto Cala Veronese-Siniscola, che non poteva avere appiccato l'in­cendio. Secondo elemento: l'ingegnere era stato diseredato. Proprio così, diseredato dalla moglie, già dall'inizio dell'anno, e il fatto era a conoscenza più o meno di tutti.
Nonostante l'abbondanza di confidenti a titolo gratuito e gli sforzi di Nicola, non era trapelato nulla riguardo a eventuali attività extraconiugali di Rinaldi. Semmai era la moglie a essere sospettata di commerci adulterini; con chi, non era dato saperlo. Ma Pirro stesso era portato a ritenere  tendenziosa la soffiata, proveniente a suo dire da una tardona concupiscente e non ricam­biata. In conclusione: stando alle indiscrezioni di Siniscola, peraltro confermate dalle notizie forni­teci dalla Procura di Milano e dalle sue vaghe ammissioni, l'ingegnere doveva essere pressoché al verde. Eppure alle due di notte giocava a bridge in una bella villa, fresco come una rosa, apparentemente ignaro della tragedia familiare e evidentemente disinteressato a quella finanziaria. Probabilmente, pensavo, la certezza di non poter disporre del patrimonio della moglie nemmeno alla morte di quest'ultima, aveva avuto su di lui un effetto rasserenante. Oppure s'era bevuto il cer­vello, definitivamente.
Ma qualcosa continuava a non tornare: l'immagine che avevo dell'ingegnere poteva derivare da quello che lui inten­deva far credere di sé, essere state studiata per dare l'immagine di uomo distrutto o disinteressato. In effetti quello sfogo tanto accorato da parte di un affarista glaciale, navigato e calcolatore, suonava, se non proprio artefatto, quanto meno fuori tono. Ma perché avrebbe dovuto uccidere, allora: per calcolo no, perché non ne avrebbe ricavato un soldo: niente eredità, niente assicurazione sulla vita, niente di niente. E lo sapeva. Quanto alla gelosia, in un ambiente come il loro è un sentimento fuori moda, piccolo borghese (sic!). Il delitto passionale, poi, semplicemente ridicolo.
E allora? Rinaldi aveva un alibi, e in apparenza nessun movente. Il barone d'Elia sembrava completamente pulito. Rimanevano gli incendiari casuali, quelli professionisti e i piromani, al solito. Oppure Marta. Riascoltavo le mie parole risuonare nel silenzio della domenica mattina: "se la signora Grisi è stata uccisa e non la conoscevi, sei innocente; se non è stata uccisa puoi essere colpevole". E se poi l'avesse conosciuta? o avesse conosciuto il marito? Per scoprirlo avrei dovuto farli pedinare, ma subito, all'inizio della storia, non ora. E magari avrei scoperto qualcosa di spiacevole, almeno per me. O forse no: meglio fare l'amore con una piromane che con un'assassina. Santo cielo, che pasticcio! Già immaginavo il momento cruciale, quando sarei dovuto andare da Casula per farmi esonerare dal caso. O forse per dare le dimissioni: un poliziotto impelagato in una tresca con la bella omicida: le dimissioni erano la soluzione più decente. E tutto questo solo perché Luisa Grisi Rinaldi era morta su un divano e non intrappolata dalle fiamme, in un'auto o in una macchia di rovi. Come aveva detto Deidda: incendio doloso provocato da ignoti. Che soluzione meravigliosa! chiara nella sua oscurità, certa nella sua incertezza: caso archiviato, come mille altri.
- Si prega di tenere le cinture allacciate e di non alzarsi fino al completo arresto dell'aeromobile. - Eravamo atterrati e non me ne ero accorto. Continuai a fingere di dormire fino a quando, tra le palpebre semichiuse, vidi il mio “amico” avvocato transitare in direzione della scaletta di coda; aspettai qualche istante e poi, ad aereo ormai vuoto, mi diressi con decisione verso l'uscita opposta, imitando il passo troppo rapido di chi si è appena svegliato. 

2 commenti:

  1. Lettore felice21/05/12, 20:58

    Yuhuuuuu!!!!

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  2. Che bello! Allora è (era) così.... (altro lettore felice)

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