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martedì 1 maggio 2012

SU FOGU captolo dodici



12.
Ritrovai Pirro che teneva la postazione, in compagnia di un cappuccino. Gli lasciai il tempo di fi­nire e ci avviammo a piedi a recuperare la macchina, lasciata in un parcheggio in rispettosa osservanza del divieto di circolazione nel centro: iniziativa lodevole, inaugurata di fresco dall'amministrazione comunale e già unanimemente malvista da tutti i vil­leggianti.
Mancava un'ora e mezza all'appuntamento con la Fresi e così, dato che la villa della Rotonda - ora ne conoscevo il nome - era di strada, decisi di farci un salto. La prima visita mi aveva soltanto riempito di angoscia. Avevo anche avuto un incubo: qualcuno, che non vedevo in volto, mi offriva da bere in una stanza elegantemente arredata, circondata da fiamme altissime; mi ero svegliato mentre cercavo invano una scusa per togliere il disturbo senza apparire scortese.
Ci accolse il carabiniere incaricato di sorvegliare la casa. Il luogo appariva di­verso dal giorno prima, come se la distruzione risultasse meno opprimente, nella luce tersa del primo mattino. La villa utilizzava il lieve pendio naturale per articolarsi su due piani, dissimulati, sul lato in vista dalla strada, da una facciata lunga e cieca. A giudicare dal rivestimento in scaglie di pietra locale, credo che il progettista avesse ricercato, e ottenuto, una suggestiva somiglianza con gli stazzi dei pastori. Solo dop­piando verso nord questo solido bastione si poteva finalmente scorgere la "rotonda": la grande sala absidata, che dava il nome alla villa, protesa a guardare il promontorio e il mare aperto, libero fino alla Corsica. Entrai dalla vetrata infranta, scavalcando il basso davanzale con cautela, dato che anch'io, come Casula, non avevo scelto il vestito più adatto per un sopralluogo in mezzo alla cenere. Mi bastarono pochi minuti per rendermi conto che non c'era niente di notevole che non avessi già notato la volta prima; probabilmente nemmeno la più accurata delle perquisizioni avrebbe potuto fornire risultati diversi: tutto era bruciato, non proprio ridotto in cenere, ma accuratamente, definitivamente combusto. Così mi diressi verso la parte della casa che ancora non conoscevo. Trovai quel che cercavo ancor prima di inoltrarmi nell'ala occidentale della villa: nel punto in cui la grande abside si congiungeva con il corpo della casa si apriva una scala, occultata dietro un finto terminale del muro maestro. Discesi con cautela i gradini piastrellati, resi viscidi dall'impasto melmoso di cenere e acqua di mare e arrivai fino a una porta metallica chiusa, ma non a chiave. Si apriva sul seminterrato, nel quale erano stati ricavati un ampio garage, un magazzino per attrezzi e una cantina-ripostiglio, che intravedevo nell'infilata di un arcone che divideva nel mezzo il vasto ambiente. Come prevedibile, lì sotto il fuoco non era arrivato: la porta metallica, le strette finestrelle a gola di lupo e la saracinesca del garage avevano preservato gli ambienti sotterranei dalla furia dell'incendio. Diventava tutto ancora più strano: sarebbe stato sufficiente scendere pochi gradini e chiudere bene una porta per salvarsi la vita. Ma la signora no! la signora aveva pre­ferito farsi un ultimo Martini.
Diedi una rapida occhiata in giro. Ispezionai prima il garage, vuoto ad eccezione di una fila di taniche di benzina, tutte dello stesso tipo. Le contai: erano nove, cinque da venti litri e quattro da dieci, tutte piene. Strano numero. Presi mentalmente nota e passai alla cantina. Qui l'ordine toccava apici maniacali: sul lato sinistro apposite rastrelliere in muratura raccoglievano centinaia di bottiglie di vino identificate da appositi talloncini di ottone o di legno, sistemate prima secondo l'area geografica di origine e poi secondo la tipologia e la qualità del vino. Sul lato destro si aprivano tre porte che immettevano su altrettante stanze, di pianta e proporzioni uguali. Nella prima si trovavano un enorme congelatore orizzontale e un fri­gorifero di tipo americano: nell'uno erano stipati pezzi di carne, pesci e buste piene di aragoste, nell'altro bibite e aperitivi, ancora freddi nonostante la corrente mancasse dalla notte precedente. Le pareti della seconda stanza erano coperte di scaffali fino al soffitto: con la stessa cura erano stati ordinati barattoli di conserva, vasetti di vetro e pacchi di pasta suddivisi per marca, tipologia e taglio. Nella terza stanza c'erano tre armadi bianchi e un armadietto sospeso, azzurro. Frugai negli armadi che contenevano indumenti, per lo più invernali e da barca: tipo maglioni, cerate, scarpe e stivali da vela. Quelli maschili nell'armadio di sinistra, quelli femminili in quello di destra. Il terzo era vuoto. Lo stipo sospeso conteneva i medicinali: ad eccezione di un rotolo di garza e di due scatole di cerotti, il resto era costituito dalla più completa collezione di sonniferi e tranquillanti che abbia mai visto. In un angolo c'era un pacco, ancora chiuso dal cordino impiombato. Uno dei lati corti dell'involucro era stato tagliato con cura, probabilmente con un coltel­lino Stanley; dentro si in­travedevano flaconi di vetro scuro. Rivoltai il pacchetto, per vedere l'indirizzo: proveniva da una ditta farmaceutica di Lucerna, ed era diretto alla signora Luisa Grisi Rinaldi. In quel momento sentii la voce di Pirro che mi chiamava insi­stentemente. Guardai l'orologio: rischiavo di far tardi all'appuntamento. 



2 commenti:

  1. Il giardino dei finti mastini

    Cani che odiano le cagne

    per la saggistica:
    La BAUhaus
    Pina BAU

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  2. «Cottu o no cottu, su fogu l'hat bidu»

    GED

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