12.
Ritrovai Pirro che teneva la postazione, in compagnia di
un cappuccino. Gli lasciai il tempo di finire e ci avviammo a
piedi a recuperare la macchina, lasciata in un parcheggio in
rispettosa osservanza del divieto di circolazione nel centro:
iniziativa lodevole, inaugurata di fresco dall'amministrazione
comunale e già unanimemente malvista da tutti i villeggianti.
Mancava un'ora e mezza all'appuntamento con la Fresi e
così, dato che la villa della Rotonda - ora ne conoscevo il nome -
era di strada, decisi di farci un salto. La prima visita mi aveva
soltanto riempito di angoscia. Avevo anche avuto un incubo: qualcuno,
che non vedevo in volto, mi offriva da bere in una stanza
elegantemente arredata, circondata da fiamme altissime; mi ero
svegliato mentre cercavo invano una scusa per togliere il disturbo
senza apparire scortese.
Ci accolse il carabiniere incaricato di sorvegliare la
casa. Il luogo appariva diverso dal giorno prima, come se la
distruzione risultasse meno opprimente, nella luce tersa del primo
mattino. La villa utilizzava il lieve pendio naturale per articolarsi
su due piani, dissimulati, sul lato in vista dalla strada, da una
facciata lunga e cieca. A giudicare dal rivestimento in scaglie di
pietra locale, credo che il progettista avesse ricercato, e ottenuto,
una suggestiva somiglianza con gli stazzi dei pastori. Solo
doppiando verso nord questo solido bastione si poteva finalmente
scorgere la "rotonda": la grande sala absidata, che dava il
nome alla villa, protesa a guardare il promontorio e il mare aperto,
libero fino alla Corsica. Entrai dalla vetrata infranta, scavalcando
il basso davanzale con cautela, dato che anch'io, come Casula, non
avevo scelto il vestito più adatto per un sopralluogo in mezzo alla
cenere. Mi bastarono pochi minuti per rendermi conto che non c'era
niente di notevole che non avessi già notato la volta prima;
probabilmente nemmeno la più accurata delle perquisizioni avrebbe
potuto fornire risultati diversi: tutto era bruciato, non proprio
ridotto in cenere, ma accuratamente, definitivamente combusto. Così
mi diressi verso la parte della casa che ancora non conoscevo. Trovai
quel che cercavo ancor prima di inoltrarmi nell'ala occidentale della
villa: nel punto in cui la grande abside si congiungeva con il corpo
della casa si apriva una scala, occultata dietro un finto terminale
del muro maestro. Discesi con cautela i gradini piastrellati, resi
viscidi dall'impasto melmoso di cenere e acqua di mare e arrivai fino
a una porta metallica chiusa, ma non a chiave. Si apriva sul
seminterrato, nel quale erano stati ricavati un ampio garage, un
magazzino per attrezzi e una cantina-ripostiglio, che intravedevo
nell'infilata di un arcone che divideva nel mezzo il vasto ambiente.
Come prevedibile, lì sotto il fuoco non era arrivato: la porta
metallica, le strette finestrelle a gola di lupo e la saracinesca del
garage avevano preservato gli ambienti sotterranei dalla furia
dell'incendio. Diventava tutto ancora più strano: sarebbe stato
sufficiente scendere pochi gradini e chiudere bene una porta per
salvarsi la vita. Ma la signora no! la signora aveva preferito
farsi un ultimo Martini.
Diedi una rapida occhiata in giro. Ispezionai prima il
garage, vuoto ad eccezione di una fila di taniche di benzina, tutte
dello stesso tipo. Le contai: erano nove, cinque da venti litri e
quattro da dieci, tutte piene. Strano numero. Presi mentalmente nota
e passai alla cantina. Qui l'ordine toccava apici maniacali: sul lato
sinistro apposite rastrelliere in muratura raccoglievano centinaia di
bottiglie di vino identificate da appositi talloncini di ottone o di
legno, sistemate prima secondo l'area geografica di origine e poi
secondo la tipologia e la qualità del vino. Sul lato destro si
aprivano tre porte che immettevano su altrettante stanze, di pianta e
proporzioni uguali. Nella prima si trovavano un enorme congelatore
orizzontale e un frigorifero di tipo americano: nell'uno erano
stipati pezzi di carne, pesci e buste piene di aragoste, nell'altro
bibite e aperitivi, ancora freddi nonostante la corrente mancasse
dalla notte precedente. Le pareti della seconda stanza erano coperte
di scaffali fino al soffitto: con la stessa cura erano stati ordinati
barattoli di conserva, vasetti di vetro e pacchi di pasta suddivisi
per marca, tipologia e taglio. Nella terza stanza c'erano tre armadi
bianchi e un armadietto sospeso, azzurro. Frugai negli armadi che
contenevano indumenti, per lo più invernali e da barca: tipo
maglioni, cerate, scarpe e stivali da vela. Quelli maschili
nell'armadio di sinistra, quelli femminili in quello di destra. Il
terzo era vuoto. Lo stipo sospeso conteneva i medicinali: ad
eccezione di un rotolo di garza e di due scatole di cerotti, il resto
era costituito dalla più completa collezione di sonniferi e
tranquillanti che abbia mai visto. In un angolo c'era un pacco,
ancora chiuso dal cordino impiombato. Uno dei lati corti
dell'involucro era stato tagliato con cura, probabilmente con un
coltellino Stanley; dentro si intravedevano flaconi di
vetro scuro. Rivoltai il pacchetto, per vedere l'indirizzo: proveniva
da una ditta farmaceutica di Lucerna, ed era diretto alla signora
Luisa Grisi Rinaldi. In quel momento sentii la voce di Pirro che mi
chiamava insistentemente. Guardai l'orologio: rischiavo di far
tardi all'appuntamento.
Il giardino dei finti mastini
RispondiEliminaCani che odiano le cagne
per la saggistica:
La BAUhaus
Pina BAU
«Cottu o no cottu, su fogu l'hat bidu»
RispondiEliminaGED