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martedì 29 maggio 2012

SU FOGU capitolo trentuno trentadue



32. Arrivammo, infine. Sul costone di un monte, coperto da una fitta boscaglia, si apriva una gola stretta, tutta in ombra. Giovanni Maria aveva fermato l'auto in una radura, dove la stradina finiva, e mi aveva tolto il cappuccio. Ci avviammo a piedi, faceva fresco e c'era un'aria fine, di montagna, ma profumo di mare; guardai alle mie spalle e scorsi una chiesetta, lontana sulla cresta del monte di fronte a noi, oltre una larga vallata. Camminammo per dieci minuti, seguendo un sentiero appena segnato lungo la gola; uno stretto gomito, un breve tratto in discesa e davanti a noi, sul ciglio opposto del dirupo, comparve uno stazzo, apparentemente abbandonato. Mi fermai, colpito dall'intensità del paesaggio. Chi è andato sui monti della Sardegna sa cosa intendo: quel senso di sopraffazione della natura sull'uomo, spaventosamente arcaico. Sulle Alpi commuoverà la maestosità della montagna, ma solo sui piccoli monti sardi si ha la sensazione di poter sondare l'inviolabile segreto del preludio delle cose.
Una rupe granitica sovrastava lo stazzo, chiuso da ogni lato dalla roccia o dagli strapiombi: chi lo aveva costruito o odiava il mondo o lo fuggiva (forse è lo stesso). Un uomo, solo, accovacciato nel breve tratto di terra piana prospiciente la casa, mungeva una pecora, il capo posato sull'ano della bestia; Giovanni Maria scosse una frasca e l'uomo guardò nella nostra direzione, nell'attimo stesso in cui la frasca aveva iniziato a muoversi. Vidi il suo volto: anche i banditi invec­chiano, e Bachisio non faceva eccezione. Per aggirare la forra furono necessari altri dieci minuti di cammino, ma infine mi ritrovai, ansimante, faccia a faccia con lui: restai lì, impalato come un ragazzino, senza sapere cosa dire.
- Coment'istas, "Grodde"? mi parese unu 'ezzu! (“come stai, Volpe, mi sembri un vecchio”)- e sorrise. Riconobbi il sorriso. Nella mia memoria era custodita la figura di un uomo grande e alto, di un eroe ricciuto: davanti a me c'era un signore piccolo e attempato, gli occhi stanchi e il viso segnato da rughe di amarezza. Anche il ferro dei capelli, chissà come, aveva capitolato: Bachisio era quasi completamente calvo.
- Non sono poi così vecchio come sembro. - Risposi sorridendo e mi avvicinai di un passo. Ma non gli porsi la mano: non sapevo se se la sarebbe sentita di stringere la mano a un poliziotto. - È perché ho perso i capelli, ma vedo che sono in buona compagnia - con un cenno del mento indicai la sua pelata. - Tu solo ti ricordi del mio soprannome.
- Grodde ?
- Sì.
- Perché l'ho inventato io. Ma non ce l'hai più la faccia di grodde, di volpe giovane, come da ragazzo. Sese unu 'ezzu, Grodde. (“sei un vecchio, Volpe”)- E avanzò verso di me porgendomi la mano, ma poi mi abbracciò stretto.  

 31. Ricordavo un giovanotto robusto, con la fronte stretta incorniciata da crespi capelli neri e occhi mobilissimi. Un viso tipicamente sardo: zigomi alti e labbro superiore largo e convesso, preistorico, che separava un naso piccolo e dritto da una bocca sottile, che si apriva in un sorriso timido su una chiostra di denti bianchissimi. Qualche volta ero andato a cavallo con lui (in due sullo stesso cavallo) nella tenuta di Ozieri, quando veniva a parlare con mio padre o forse solo ad accompagnarlo a caccia: trent'anni fa, Bachisio Uras probabilmente poteva ancora fare a meno dei servizi professionali di papà. L'immagine che ritrovavo nella memoria era solo quella, insieme alla sensazione di due braccia forti che mi sorreggevano alla vita e al profumo primaverile della campagna, inquadrata tra le orecchie di Natalino, un morello vecchio e quieto, adibito a fare da nave scuola a noi ragazzi. Ero certo di aver rivisto Ferru al suo primo processo, circa dieci anni più tardi, ma di quell'episodio non conservavo memoria: eravamo andati solo per assistere all'arringa di papà - il processo era stato famoso - e Bachisio era lontano, in fondo all'aula, circondato dai ca­rabinieri...
Sentivo che la macchina, una vecchia Punto verde, si inerpicava su una strada bianca e sapevo che il mare non doveva essere troppo lontano: ne percepivo l'odore. Giovanni Maria, un ragazzo di venticinque, ventisei anni taciturno e gentile, subito dopo Oliena mi aveva coperto il capo con un cappuccio di tela, scusandosi con un "niente di personale, commissario" che sembrava ispirato da gentilezza innata più che da istruzioni ricevute. Lo avevo conosciuto un'ora prima, nel luogo stabilito da mio cugino per l'incontro, lungo la strada per Nuoro, al bivio di Bolotana, dove lo stesso Pietro mi aveva accompagnato al solo scopo di riempirmi la testa di raccomandazioni inutili. Da Bolotana a Nuoro, Giovanni Maria non aveva detto una parola, e solo dopo aver attraversato la città mi aveva avvertito che si sarebbe reso necessario il cappuccio.
L'uso di andare in giro in macchina bendati andrebbe coltivato: aiuta la concentrazione e ravviva la percezione dell'esterno. Io mi ero lasciato prendere dai ricordi, che si presentavano in ordine sparso e indipendentemente dalla mia volontà. Il volto di Ferru, le orecchie di Natalino, il vociare delle sorelline nella pineta dietro la casa. C'era un filo di guidogozzano in quei ricordi o erano tutti miei? l'insistenza e la persistenza della memoria della nostra casa di Ozieri corri­spondeva veramente a un periodo felice della mia vita? oppure era solo vernice, che andavo sten­dendo da anni a coprire quell'unica immagine, monotona, ossessiva, chiara fin nel minimo dettaglio anche se non vista con gli occhi. Soltanto evocata, tra i singhiozzi, da una frase ripetuta all'infinito da mia madre a tutti e soprattutto a me, che arrivavo quel giorno, quel minuto, quel secondo, dopo anni di assenza dalla campagna: "... e poi, poverino, cadendo si è sbucciato tutt'e due le ginocchia, cadendo, poverino, cadendo sui sassi...", mentre mio padre giaceva morto nella stanza accanto, con il petto squarciato da un pallettone da cinghiale.
- Le dà fastidio il fumo? - mi chiese Giovanni Maria, salvandomi dai miei pensieri.
- No, fumi pure. Grazie.
- Commissario, le posso chiedere una cosa?
- Se posso risponderle, volentieri.
- Lei conosce Bachisio da molto tempo?
- Da quando ero bambino.
- E lei lo sa perché si chiama Ferru ?
- Se non ve l'ha detto, forse ha piacere che non lo si sappia.
- No: lui dice che non se lo ricorda, sennò a me lo direbbe: io sono suo figlio.
- Ma davvero? non sapevo che Bachisio avesse figli. - Lo sentii arrossire, doveva essere timidissimo.
- Sono un figlio così, di quelli per caso. - Fortunatamente lui non mi sentì sorridere.
- Si chiama Ferru perché aveva i capelli talmente duri da sembrare fil di ferro: sua madre, tua nonna, lo chiamava così da bambino. Poi tutti lo hanno sempre chiamato Filu 'e ferru, ma pensando all'acquavite, credo, e non ai capelli. All'epoca del primo processo, del soprannome si im­padronirono i giornali che lo abbreviarono in Ferru, anche perché in questa forma risulta più adeguato a sintetizzare l'immagine del bandito sardo, forte e feroce.
- Ma babbo non è feroce.
- Lo so.

32. Arrivammo, infine. Sul costone di un monte, coperto da una fitta boscaglia, si apriva una gola stretta, tutta in ombra. Giovanni Maria aveva fermato l'auto in una radura, dove la stradina finiva, e mi aveva tolto il cappuccio. Ci avviammo a piedi, faceva fresco e c'era un'aria fine, di montagna, ma profumo di mare; guardai alle mie spalle e scorsi una chiesetta, lontana sulla cresta del monte di fronte a noi, oltre una larga vallata. Camminammo per dieci minuti, seguendo un sentiero appena segnato lungo la gola; uno stretto gomito, un breve tratto in discesa e davanti a noi, sul ciglio opposto del dirupo, comparve uno stazzo, apparentemente abbandonato. Mi fermai, colpito dall'intensità del paesaggio. Chi è andato sui monti della Sardegna sa cosa intendo: quel senso di sopraffazione della natura sull'uomo, spaventosamente arcaico. Sulle Alpi commuoverà la maestosità della montagna, ma solo sui piccoli monti sardi si ha la sensazione di poter sondare l'inviolabile segreto del preludio delle cose.
Una rupe granitica sovrastava lo stazzo, chiuso da ogni lato dalla roccia o dagli strapiombi: chi lo aveva costruito o odiava il mondo o lo fuggiva (forse è lo stesso). Un uomo, solo, accovacciato nel breve tratto di terra piana prospiciente la casa, mungeva una pecora, il capo posato sull'ano della bestia; Giovanni Maria scosse una frasca e l'uomo guardò nella nostra direzione, nell'attimo stesso in cui la frasca aveva iniziato a muoversi. Vidi il suo volto: anche i banditi invec­chiano, e Bachisio non faceva eccezione. Per aggirare la forra furono necessari altri dieci minuti di cammino, ma infine mi ritrovai, ansimante, faccia a faccia con lui: restai lì, impalato come un ragazzino, senza sapere cosa dire.
- Coment'istas, "Grodde"? mi parese unu 'ezzu! (“come stai, Volpe, mi sembri un vecchio”)- e sorrise. Riconobbi il sorriso. Nella mia memoria era custodita la figura di un uomo grande e alto, di un eroe ricciuto: davanti a me c'era un signore piccolo e attempato, gli occhi stanchi e il viso segnato da rughe di amarezza. Anche il ferro dei capelli, chissà come, aveva capitolato: Bachisio era quasi completamente calvo.
- Non sono poi così vecchio come sembro. - Risposi sorridendo e mi avvicinai di un passo. Ma non gli porsi la mano: non sapevo se se la sarebbe sentita di stringere la mano a un poliziotto. - È perché ho perso i capelli, ma vedo che sono in buona compagnia - con un cenno del mento indicai la sua pelata. - Tu solo ti ricordi del mio soprannome.
- Grodde ?
- Sì.
- Perché l'ho inventato io. Ma non ce l'hai più la faccia di grodde, di volpe giovane, come da ragazzo. Sese unu 'ezzu, Grodde. (“sei un vecchio, Volpe”)- E avanzò verso di me porgendomi la mano, ma poi mi abbracciò stretto.  

3 commenti:

  1. Ma l'editore ci fa gli scherzi per metterci alla prova e vedere se leggiamo?

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  2. pilon cosa succede???
    Hai mischiato i capitoli???

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  3. Io non c'entro. E' l'editore che fa le prove per vedere se leggete.

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