32. Arrivammo, infine. Sul costone di un monte, coperto da una fitta
boscaglia, si apriva una gola stretta, tutta in ombra. Giovanni Maria
aveva fermato l'auto in una radura, dove la stradina finiva, e mi
aveva tolto il cappuccio. Ci avviammo a piedi, faceva fresco e c'era
un'aria fine, di montagna, ma profumo di mare; guardai alle mie
spalle e scorsi una chiesetta, lontana sulla cresta del monte di
fronte a noi, oltre una larga vallata. Camminammo per dieci minuti,
seguendo un sentiero appena segnato lungo la gola; uno stretto
gomito, un breve tratto in discesa e davanti a noi, sul ciglio
opposto del dirupo, comparve uno stazzo, apparentemente abbandonato.
Mi fermai, colpito dall'intensità del paesaggio. Chi è andato sui
monti della Sardegna sa cosa intendo: quel senso di sopraffazione
della natura sull'uomo, spaventosamente arcaico. Sulle Alpi
commuoverà la maestosità della montagna, ma solo sui piccoli monti
sardi si ha la sensazione di poter sondare l'inviolabile segreto del
preludio delle cose.
Una rupe granitica sovrastava lo stazzo, chiuso da ogni lato dalla
roccia o dagli strapiombi: chi lo aveva costruito o odiava il mondo o
lo fuggiva (forse è lo stesso). Un uomo, solo, accovacciato nel
breve tratto di terra piana prospiciente la casa, mungeva una pecora,
il capo posato sull'ano della bestia; Giovanni Maria scosse una
frasca e l'uomo guardò nella nostra direzione, nell'attimo stesso in
cui la frasca aveva iniziato a muoversi. Vidi il suo volto: anche i
banditi invecchiano, e Bachisio non faceva eccezione. Per
aggirare la forra furono necessari altri dieci minuti di cammino, ma
infine mi ritrovai, ansimante, faccia a faccia con lui: restai lì,
impalato come un ragazzino, senza sapere cosa dire.
- Coment'istas, "Grodde"? mi parese unu 'ezzu!
(“come stai, Volpe, mi sembri un vecchio”)- e sorrise. Riconobbi
il sorriso. Nella mia memoria era custodita la figura di un uomo
grande e alto, di un eroe ricciuto: davanti a me c'era un signore
piccolo e attempato, gli occhi stanchi e il viso segnato da rughe di
amarezza. Anche il ferro dei capelli, chissà come, aveva capitolato:
Bachisio era quasi completamente calvo.
- Non sono poi così vecchio come sembro. - Risposi sorridendo e mi
avvicinai di un passo. Ma non gli porsi la mano: non sapevo se se la
sarebbe sentita di stringere la mano a un poliziotto. - È perché ho
perso i capelli, ma vedo che sono in buona compagnia - con un cenno
del mento indicai la sua pelata. - Tu solo ti ricordi del mio
soprannome.
- Grodde ?
- Sì.
- Perché l'ho inventato io. Ma non ce l'hai più la faccia di
grodde, di volpe giovane, come da ragazzo. Sese unu 'ezzu,
Grodde. (“sei un vecchio, Volpe”)- E avanzò verso di me
porgendomi la mano, ma poi mi abbracciò stretto.
31. Ricordavo un giovanotto robusto, con la fronte stretta
incorniciata da crespi capelli neri e occhi mobilissimi. Un viso
tipicamente sardo: zigomi alti e labbro superiore largo e convesso,
preistorico, che separava un naso piccolo e dritto da una bocca
sottile, che si apriva in un sorriso timido su una chiostra di denti
bianchissimi. Qualche volta ero andato a cavallo con lui (in due
sullo stesso cavallo) nella tenuta di Ozieri, quando veniva a parlare
con mio padre o forse solo ad accompagnarlo a caccia: trent'anni fa,
Bachisio Uras probabilmente poteva ancora fare a meno dei servizi
professionali di papà. L'immagine che ritrovavo nella memoria era
solo quella, insieme alla sensazione di due braccia forti che mi
sorreggevano alla vita e al profumo primaverile della campagna,
inquadrata tra le orecchie di Natalino, un morello vecchio e quieto,
adibito a fare da nave scuola a noi ragazzi. Ero certo di aver
rivisto Ferru al suo primo processo, circa dieci anni più
tardi, ma di quell'episodio non conservavo memoria: eravamo andati
solo per assistere all'arringa di papà - il processo era stato
famoso - e Bachisio era lontano, in fondo all'aula, circondato dai
carabinieri...
Sentivo che la macchina, una vecchia Punto verde, si inerpicava su
una strada bianca e sapevo che il mare non doveva essere troppo
lontano: ne percepivo l'odore. Giovanni Maria, un ragazzo di
venticinque, ventisei anni taciturno e gentile, subito dopo Oliena mi
aveva coperto il capo con un cappuccio di tela, scusandosi con un
"niente di personale, commissario" che sembrava ispirato da
gentilezza innata più che da istruzioni ricevute. Lo avevo
conosciuto un'ora prima, nel luogo stabilito da mio cugino per
l'incontro, lungo la strada per Nuoro, al bivio di Bolotana, dove lo
stesso Pietro mi aveva accompagnato al solo scopo di riempirmi la
testa di raccomandazioni inutili. Da Bolotana a Nuoro, Giovanni Maria
non aveva detto una parola, e solo dopo aver attraversato la città
mi aveva avvertito che si sarebbe reso necessario il cappuccio.
L'uso di andare in giro in macchina bendati andrebbe coltivato: aiuta
la concentrazione e ravviva la percezione dell'esterno. Io mi ero
lasciato prendere dai ricordi, che si presentavano in ordine sparso e
indipendentemente dalla mia volontà. Il volto di Ferru, le
orecchie di Natalino, il vociare delle sorelline nella pineta dietro
la casa. C'era un filo di guidogozzano in quei ricordi o erano tutti
miei? l'insistenza e la persistenza della memoria della nostra casa
di Ozieri corrispondeva veramente a un periodo felice della mia
vita? oppure era solo vernice, che andavo stendendo da anni a
coprire quell'unica immagine, monotona, ossessiva, chiara fin nel
minimo dettaglio anche se non vista con gli occhi. Soltanto evocata,
tra i singhiozzi, da una frase ripetuta all'infinito da mia madre a
tutti e soprattutto a me, che arrivavo quel giorno, quel minuto, quel
secondo, dopo anni di assenza dalla campagna: "... e poi,
poverino, cadendo si è sbucciato tutt'e due le ginocchia, cadendo,
poverino, cadendo sui sassi...", mentre mio padre giaceva morto
nella stanza accanto, con il petto squarciato da un pallettone da
cinghiale.
- Le dà fastidio il fumo? - mi chiese Giovanni Maria, salvandomi dai
miei pensieri.
- No, fumi pure. Grazie.
- Commissario, le posso chiedere una cosa?
- Se posso risponderle, volentieri.
- Lei conosce Bachisio da molto tempo?
- Da quando ero bambino.
- E lei lo sa perché si chiama Ferru ?
- Se non ve l'ha detto, forse ha piacere che non lo si sappia.
- No: lui dice che non se lo ricorda, sennò a me lo direbbe: io sono
suo figlio.
- Ma davvero? non sapevo che Bachisio avesse figli. - Lo sentii
arrossire, doveva essere timidissimo.
- Sono un figlio così, di quelli per caso. - Fortunatamente lui non
mi sentì sorridere.
- Si chiama Ferru perché aveva i capelli talmente duri da
sembrare fil di ferro: sua madre, tua nonna, lo chiamava così da
bambino. Poi tutti lo hanno sempre chiamato Filu 'e ferru, ma
pensando all'acquavite, credo, e non ai capelli. All'epoca del primo
processo, del soprannome si impadronirono i giornali che lo
abbreviarono in Ferru, anche perché in questa forma risulta
più adeguato a sintetizzare l'immagine del bandito sardo, forte e
feroce.
- Ma babbo non è feroce.
- Lo so.
32. Arrivammo, infine. Sul costone di un monte, coperto da una fitta
boscaglia, si apriva una gola stretta, tutta in ombra. Giovanni Maria
aveva fermato l'auto in una radura, dove la stradina finiva, e mi
aveva tolto il cappuccio. Ci avviammo a piedi, faceva fresco e c'era
un'aria fine, di montagna, ma profumo di mare; guardai alle mie
spalle e scorsi una chiesetta, lontana sulla cresta del monte di
fronte a noi, oltre una larga vallata. Camminammo per dieci minuti,
seguendo un sentiero appena segnato lungo la gola; uno stretto
gomito, un breve tratto in discesa e davanti a noi, sul ciglio
opposto del dirupo, comparve uno stazzo, apparentemente abbandonato.
Mi fermai, colpito dall'intensità del paesaggio. Chi è andato sui
monti della Sardegna sa cosa intendo: quel senso di sopraffazione
della natura sull'uomo, spaventosamente arcaico. Sulle Alpi
commuoverà la maestosità della montagna, ma solo sui piccoli monti
sardi si ha la sensazione di poter sondare l'inviolabile segreto del
preludio delle cose.
Una rupe granitica sovrastava lo stazzo, chiuso da ogni lato dalla
roccia o dagli strapiombi: chi lo aveva costruito o odiava il mondo o
lo fuggiva (forse è lo stesso). Un uomo, solo, accovacciato nel
breve tratto di terra piana prospiciente la casa, mungeva una pecora,
il capo posato sull'ano della bestia; Giovanni Maria scosse una
frasca e l'uomo guardò nella nostra direzione, nell'attimo stesso in
cui la frasca aveva iniziato a muoversi. Vidi il suo volto: anche i
banditi invecchiano, e Bachisio non faceva eccezione. Per
aggirare la forra furono necessari altri dieci minuti di cammino, ma
infine mi ritrovai, ansimante, faccia a faccia con lui: restai lì,
impalato come un ragazzino, senza sapere cosa dire.
- Coment'istas, "Grodde"? mi parese unu 'ezzu!
(“come stai, Volpe, mi sembri un vecchio”)- e sorrise. Riconobbi
il sorriso. Nella mia memoria era custodita la figura di un uomo
grande e alto, di un eroe ricciuto: davanti a me c'era un signore
piccolo e attempato, gli occhi stanchi e il viso segnato da rughe di
amarezza. Anche il ferro dei capelli, chissà come, aveva capitolato:
Bachisio era quasi completamente calvo.
- Non sono poi così vecchio come sembro. - Risposi sorridendo e mi
avvicinai di un passo. Ma non gli porsi la mano: non sapevo se se la
sarebbe sentita di stringere la mano a un poliziotto. - È perché ho
perso i capelli, ma vedo che sono in buona compagnia - con un cenno
del mento indicai la sua pelata. - Tu solo ti ricordi del mio
soprannome.
- Grodde ?
- Sì.
- Perché l'ho inventato io. Ma non ce l'hai più la faccia di
grodde, di volpe giovane, come da ragazzo. Sese unu 'ezzu,
Grodde. (“sei un vecchio, Volpe”)- E avanzò verso di me
porgendomi la mano, ma poi mi abbracciò stretto.
Ma l'editore ci fa gli scherzi per metterci alla prova e vedere se leggiamo?
RispondiEliminapilon cosa succede???
RispondiEliminaHai mischiato i capitoli???
Io non c'entro. E' l'editore che fa le prove per vedere se leggete.
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