in copertina potete riconoscere il volto dell'assasino
18. Due giorni dopo il vento fresco di nord-ovest era
calato e un levante appiccicoso nascondeva lo smalto del cielo dietro
una patina caliginosa, densa di nubi e ora minacciosa di piovaschi.
Percorrevo senza fretta la provinciale diretto ad una cena "di
lavoro" dai Casula. Questi strani incontri erano diventati, col
tempo, una piacevole consuetudine: sua moglie preparava una buona
cena e riempiva la serata di chiacchiere, di solito incentrate sui
misfatti che il marito, quand’era in vena di fai-da-te, perpetrava
ai danni del mobilio o degli elettrodomestici di casa . E Giuseppe,
di solito così taciturno, non faceva che torcersi dal ridere,
lacrimando e sussultando. Credo di non aver mai visto un marito
guardare sua moglie con tanta simpatia. Quando la serata sembrava
conclusa, dieci minuti nello studio o sul patio erano sufficienti a
esaurire la parte lavorativa.
Tenevo tutti i finestrini aperti e tentavo di abbozzare
quella sintesi estrema che Casula avrebbe preteso. Spesso succede: i
dati si erano accumulati, ma la situazione generale permaneva
invariata. Sul tenebroso Rinaldi ci eravamo procurati una conferma
telefonica da parte della compagnia assicuratrice e una e-mail di
risposta dalla Procura milanese. La prima scontata, la seconda un po'
meno: la situazione finanziaria del Rinaldi offriva imprevisti spunti
di riflessione. Fino a qualche anno prima il bel Riccardo spiccava
fra i venti imprenditori edili più in vista di tutta la Lombardia;
malgrado ciò era stato a mala pena sfiorato dalle inchieste
dell’ormai dimenticata faccenda di “mani pulite”. Il motivo,
che i colleghi milanesi suggerivano per chiarirmi meglio la faccenda,
non credo avrebbe aiutato il già zoppicante amor proprio
dell’ingegnere: negli ultimi due, tre anni i suoi affari erano
andati talmente male da farlo precipitare in un limbo di oblio
legale, in fondo alla lunga lista di possibili indagati, forse tanto
in fondo da non essere più visibile. Voci attendibili - di origine
bancaria, ovviamente - spiegavano la débacle semplicemente con una
progressiva attenuazione della sua fattiva solerzia: niente di
strano o di losco, dunque. Un quadro esauriente e molto significativo
dal quale però, per la diabolica astuzia (o la limpida sincerità?)
con cui l'ingegnere aveva condotto il nostro colloquio, la sua
versione dei fatti non era neppure scalfita, anzi…
L'altro fronte delle indagini fruttava ancor meno. Il
questore, finalmente comparso ad allietarci con il suo acume, aveva
ipotizzato un colpo de mano da parte der compratore delle tere der
barone, teso a ribassarne ulteriormente la valutazione. Anche se
l'ipotesi proveniva da un coglione, fui comunque costretto a chiedere
lumi a D'Elia, sempre in virtù delle nostre chiare affinità
elettive. Sentito informalmente per telefono, il vecchio pescecane
aveva escluso tale eventualità, visto che teneva da quasi un anno
"appesi all'amo" (l'espressione è tutta sua) tre possibili
acquirenti, ma nessuno di loro poteva dirsi certo della sua decisione
finale al punto da rischiare la galera per ribassare un prezzo ancora
vago. Il tutto mentre una lunga e meticolosa visita di Pirro
all'Ufficio Tecnico del Comune confermava, nel quadro
dell'ufficialità, quanto il barone aveva riferito nel primo
colloquio. Da qui a escludere - come sempre in questi casi -
l'esistenza di un quadro ufficioso, ne correva: gli accordi
sotterranei di questo genere, che riguardano una minuziosa e
criminosa pianificazione territoriale a latere
di quella legale, nell'ultimo trentennio
avevano deciso, sempre incontrastati, i destini rosei della
speculazione e quelli, meno rosei, delle coste sarde.
Mi ero riservato, per tenermi in allenamento, un
supplemento di indagine sulle attività della dottoressa Fresi nella
notte dell'incendio. Avevo estorto con discrezione ad un'albergatrice
fin troppo rispettosa della privacy dei propri clienti, la conferma
dell'orario della precipitosa uscita di Marta e quindi,
indirettamente, della sua versione dei fatti. Rimaneva in ombra tutto
il periodo precedente la sua comparsa all'ingresso, durante il quale,
a sua detta, sarebbe rimasta a lavorare in camera. La camera in
questione, scelta “per la sua tranquillità”, era una sorta di
foresteria con ingresso indipendente su un cortiletto - ingentilito
da un fico ombroso e da un vecchio pozzo coperto da un gigantesco
oleandro - separato dall'aperta campagna soltanto da un basso muro a
secco. In conclusione: se la Fresi ne avesse avuto motivo, sarebbe
potuta uscire non vista dalla sua camera, appiccare il fuoco, tornare
con moderata fretta alla locanda e quindi comparire per apprendere,
stupefatta prima e sconvolta poi, la notizia del disastro.
19. Ma il vero disastro era la labilità di un'indagine
basata su impressioni. Il polso della situazione lo può fornire il
tempo che quella sera passai a lavorare con Casula: un'ora circa,
un'enormità per il nostro standard, senza contare le tre ore passate
tra cena e chiacchiere. Dagli archivi della memoria comune erano
state riesumate le carovane di carri a buoi che trasportavano
derrate per famiglie immense, dirette alla villeggiatura in uno
sperduto villaggio gallurese. Giuseppe, che era il più anziano dei
tre, ricordava bene la esasperante lentezza di quei convogli, che
concedeva ai bambini il tempo per partite di pallone e di
cavallina, senza il rischio di perdere i carri: anche dopo due ore si
era comunque sicuri di poterli raggiungere senza affrettarsi troppo,
accolti da premurose tate con limonata e biscotti. I “grandi”,
nonni, mamme, papà e zii, disdegnavano la via carovaniera e si
concedevano il lusso di una traversata per mare, imbarcati su
pescherecci fetentissimi. Arrivavano a destinazione ridotti da far
pietà, per il mal di mare e le liti familiari, acuite da due giorni
e una notte di strettissima convivenza. E ogni cosa, naturalmente,
era più bella. La ricchezza, il turismo di massa, il benessere, la
luce elettrica, le strade asfaltate ci avevano colti tutti
impreparati, noi gattopardi isolani, patetici e quasi estinti,
inclini a rimpiangere il privilegio perduto dell'esclusività. Ma
certo anche gli altri, quelli senza privilegi prima e senza privilegi
dopo, sui quali l'ondata del benessere era passata alta, senza
neppure spruzzarli.
- Secondo voi quanti di questi incendi sono appiccati
solo per senso di rivalsa? - Giuseppe aveva interrotto le
rievocazioni. Era seguito un lungo silenzio, mentre il tetto della
veranda rimandava il rumore sordo delle prime gocce di una pioggia
greve. Quasi nello stesso istante era mancata la luce. Giuseppe e io
ce ne andammo nello studio, illuminato da quattro candele fissate con
la loro cera su un vecchio vassoio di peltro. Casula si era riservato
per il dopocena una primizia: i risultati dell'autopsia. Secondo lui
erano apprezzabili dal punto di vista tecnico e soddisfacenti per le
indagini: ero d'accordo sul primo punto, meno sul secondo. Sul
cadavere erano state condotte analisi approfondite - non so e non
voglio sapere come avessero fatto - che dimostravano in modo
inequivocabile come la signora avesse ingerito una buona
quantità di sonnifero e fosse stata colpita alla testa da un corpo
contundente. All'apparenza si trattava di dati molto
promettenti. Però: qualsiasi medico sarebbe stato in grado di
dimostrare che Luisa Rinaldi era in pratica nelle stesse condizioni
di assuefazione di un tossicodipendente. Di conseguenza, il fatto che
il medico legale ritenesse “ingente” la quantità rilevata non
equivaleva a dire che sarebbe stata sufficiente a ucciderla -
nell'ipotesi del suicidio/omicidio - e neppure a intontirla in modo
tale da farle perdere il controllo su se stessa - nell'ipotesi
dell'incidente. Prove testimoniali: il marito, forse il
personale di servizio, altri parenti, la casa farmaceutica svizzera,
un medico curante. Infine io stesso, che avevo potuto constatare
di persona la consistenza del micidiale arsenale farmacologico della
Rinaldi.
C'era pur sempre il colpo in testa. Ma qui i dubbi
vennero allo stesso Giuseppe, che accennò alla sua celebre
imitazione di uno dei più insigni principi del Foro nostrani, colto
nell'atto di illustrare con apparente ingenuità la sorte di un
malcapitato che si trovi per caso, e senza potersi muovere, in una
stanza dove i tre quarti del tetto stiano crollando. In effetti
ricordavo chiaramente di aver camminato su un tappeto di calcinacci,
stracotti e ridotti a fanghiglia, che ancora scricchiolavano sotto le
suole. Se poi si fosse arrivati a dimostrare che il crollo del tetto
non era stato causato dalle fiamme, ma dalle cascate d'acqua lanciate
dagli aerei (ipotesi non peregrina), ne sarebbe conseguito che il
trauma cranico poteva essere successivo non solo alla morte della
signora, ma anche alla conclusione materiale dell'incendio. Il
delitto rimaneva una possibilità, ma non era una certezza. Tanto
correre conduceva a un punto morto dal quale, temevo, si sarebbe
potuti uscire solo riconducendo l'inchiesta nel solco della pura
casualità.
La pars destruens
del colloquio durò ventidue minuti. Per i restanti quarantotto
circa, alla fioca luce delle candele, procedendo in una cordata di
idee, riuscimmo a ricomporre un nuovo fronte di indagini,
essenzialmente teorico ma non privo di risvolti pratici
immediati.
- Come puoi ben vedere, - concluse Giuseppe - non siamo
assolutamente fermi, anzi: se tu non avessi trascurato certi
particolari, saremmo già parecchio avanti. Punto primo: alibi di
Rinaldi. Al momento conosciamo solo i suoi moventi, o meglio, i suoi
possibili moventi.
- Punto secondo. Non so nulla dei moventi di Marta
Fresi...
- ...che per questo non ha nemmeno un vero e proprio
alibi. Punto terzo: l'unico modo per essere davvero sicuri di aver
imboccato la strada giusta è escludere ogni altra possibilità.
Ne convieni?
- Non ho capito.
- Sì che hai capito: la storia della "questione
privata", come la chiami tu, reggerebbe molto meglio se si
potessero escludere le vie maestre, quelle dei professionisti del
fuoco.
- E come si fa? Scusa sai: ci vuole più tempo a fare
questo che non a esaurire le indagini sull'omicidio, sempre che ci
sia stato. I carabinieri...
- I carabinieri non c'entrano. Sei tu che lo devi fare.
Io non voglio sapere come, ma solo che l'hai fatto, e in fretta.
- Allora ho capito: no!
- Non fare tanto lo schizzinoso: i pentiti sono pentiti.
- Ho detto no!
- Vabbè. Ma pensaci. Domani ti preparo quello che serve
per gli accertamenti: si dovrà andare a Siniscola, per sentire gli
amici di Rinaldi. E forse si dovrà andare a Roma, se ti sembra ne
valga la pena, per sapere qualcosa di più sulle ricerche della
dottoressa Fresi. E dovresti andare a Sassari? O è sempre no? Ma per
favore! mettiamo che l'ultimo punto è facoltativo, ma molto
conveniente.
Ci lasciammo sulla porta di casa, mentre catinelle di
acqua tiepida si rovesciavano sui monti di Mola.
Nemmeno un commento? Sì, lo so che questi due capitoli sono quelli tipici dei gialli per allungare il brodo. D'altra parte comprenderete che alcune leve del giallo devono essere occultate tra chiacchiere che fanno distrarre il lettore. Per cui, una volta che siete arrivati a leggere questo commento, rileggete i due capitoli con più attenzione, oppure leggeteli veramente (so che molti lettori sono tali solo per la sezione dei commenti: io non mi faccio illusioni!). Vedrete che vi saranno utili per il prosieguo.
RispondiEliminaA proposito dei gattini neonati: li avete mai provati in umido con le patate? Mia nonna aggiungeva salvia e un pizzico di zafferano ma a mio padre non piaceva. Sono questioni di gusto sulle quali non mi permetto di entrare. Pilon
Sono fuori, ad Oslo fino a venerdì, ma ci sono tante wifi (ora sul treno e sicuramente in albergo) e quindi continuerò a leggere come sempre sul mio bellissimo ipad (alla faccia di Marco).
RispondiEliminaRoscia l'altro giorno mi hai dato una sola mitica. Ho anche riprovato a chiamarti senza successo...
mi sorprende che la mia ex amica Emilia non commenti l'agghiacciante ricetta di Pilon a base di gattini, Pilon si sa è un cinico briccone, ma Emilia! Comincio a credere che i suoi ideali sian solo fumo per le upupe, gracchiar di corvo, traccie di anaconda, e che dietro quelle apparenze si nasconda un mostro!
RispondiEliminaRoscia
ha ha ha era scritta con tanta poca convinzione che non c'era bisogno di intervenire. si sa che Pilon ama i gatti ma ne ha un po' paura...
RispondiEliminacomunque qui non si vedono capitoli e mi tocca tornare su facebook dai miei veri amici...
RispondiEliminasono riuscita a vedere le navi vichinghe, che belle!
RispondiEliminae i vichinghi?
RispondiEliminaRoscia
i vikinghi sono troppo alti per me
RispondiEliminaemilia
I vichinghi sono veramente alti ma biondi, con bellissimi occhi azzurri e simpatici
RispondiEliminaai vichinghi non gli tira
RispondiEliminatutta invidia!
RispondiEliminaRoscia