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domenica 19 febbraio 2012

ADESSO ALTRE PECORE capitolo due

Mi accorgo di dare molte cose per scontate, mentre non lo sono affatto. Sull’anima ad esempio c’è molto da dire. Ho detto che viaggia da un corpo a un altro, intendendo per corpo qualsiasi involucro in cui riesce ad entrare e a sentirsi comoda, e che la destinazione non la decide lei ma il caso, oppure Lui, questo non lo so. Quello che so è che è sempre la stessa, non cambia mai, se è mite e generosa chi la possiede sarà mite e generoso, cinghiale o patella o pino, se invece è nervosa e prepotente…vi vedo perplessi…non mi credete…per le patelle? Non credete che abbiano un’anima?
Siamo sempre stati antropocentrici, ci crediamo gli unici ad avere qualità che il resto del creato non ha. Ma non è vero. Prima d’essere quello che attualmente sono, ossia un uomo maturo che vive vendendo nature morte agli hotel, ero un arbusto di corbezzolo, uno splendido esemplare di arbutus unedo sempreverde molto ramificato di circa sette metri. Vivevo da sempre nel giardino di una villa a poche centinaia di metri dal mare, quindi stavo bene in salute perché il corbezzolo è una pianta mediterranea e ama il mare.
Ho scritto che vivevo da sempre lì perché ero talmente bello che molti visitatori offrivano somme ingenti per farmi trapiantare nel loro giardino, ma il mio proprietario si rifiutava sempre. E già, anche le piante e gli alberi non possono stare tranquilli, da un giorno all’altro può capitare di tutto, una potatura fatta male, che spesso li porta alla morte, un trasloco sbagliato in luoghi inadatti, troppo caldi o troppo freddi, che pure è letale, oppure la morte per legna, la più dolorosa perché ti ammazzano due volte, prima ti fanno a pezzi e poi ti bruciano col contagocce, due ciocchi oggi, tre domani, mai tutti insieme. Una tortura che a volte si prolunga per anni, soprattutto se in casa non c’è camino, solo un barbecue esterno che d’inverno non si usa. Rimane sempre qualche ciocco fino all’estate successiva, mangiato dalle muffe e da chissà quale insetto minuscolo che pian piano ti penetra dentro succhiandoti tutta la voglia residua di esistere.
A certe specie capita talmente spesso di traslocare nel posto sbagliato che preferiscono suicidarsi. Soprattutto agli alberi di Natale, poveracci, li mettono a dicembre in appartamenti surriscaldati e certe volte non arrivano neanche alla vigilia, perdono tutti gli aghi e tirano le cuoia. I più crudeli per far prima gli tolgono le radici, come se a noi togliessero i piedi, e li condannano a morte sicura perché non possono più nutrirsi. Questa è la sorte tragica del peccio (picea abies), detto anche abete rosso, e al nord di altre specie di abete (abies alba o abies nordmanniana), pini e conifere. Così molti di loro a ottobre o novembre si lasciano andare, non succhiano più il nutrimento da mamma terra sperando di rinsecchire il più possibile per evitare il trasloco. Chi mai spende venti o trenta euro per un peccio spelacchiato? L’idea è di evitare il trasloco fino al giorno di Natale, quando ormai nessuno vuole più abeti, e il 25 fare un pranzo come si deve per tirarsi un po’ su. Ma a volte è troppo tardi, a furia di non mangiare la corteccia, il libro, il cambio e il cilindro centrale, per non parlare delle ramificazioni e degli aghi, sono talmente danneggiati che è quasi impossibile evitare il peggio.
A me era andata bene, sono stato sempre abbastanza fortunato. Gli uomini amano i corbezzoli, anche perché i frutti sono deliziosi, alcuni li chiamano cerase di mare, ciliegie di mare. Quindi niente traslochi e una vita molto lunga, comoda, sempre in un posto. Ma non è stata solo fortuna, è qui che voglio arrivare. Mi ha aiutato il carattere mite e generoso, ossia l’anima. Altrimenti in più occasioni avrei potuto arrabbiarmi e sarebbe stata la fine. Quindi l’anima, la stessa che adesso alberga nel mio corpo di uomo, mi ha permesso di evitare ciò che molti corbezzoli hanno dovuto soffrire per colpa di un carattere più nervoso e suscettibile.
Infatti anch’io ho vissuto momenti difficili, potature dilettantesche, gatti che usavano i miei rami per far gare di corsa, eserciti di calabroni giganti (vespa crabro, da non confondere con l’ape legnaiuola e il bombo terrestre, rispettivamente xylocopa violacea e bombus terrestris) che mi ronzavano attorno tutto il santo giorno piluccando qua e là, un rumore e un prurito insopportabili. Molti al posto mio sarebbero usciti fuori di testa, è normale, io invece che ero mite e giudizioso ho lasciato correre. I rami potati sono cresciuti di nuovo, non proprio come li volevo, i gatti dopo un po’ si sono stufati di far le scimmie e i calabroni sono spariti, come ogni anno appena arriva il freddo. Io lo sapevo che sarebbe successo e ho mantenuto la calma. Dovrebbero farlo anche gli uomini, si arrabbiano per un nonnulla senza capire che si vive meglio tranquilli, che tutto prima o poi si aggiusta.
La peggiore potatura l’ho avuta nell’estate del ’47, ricordo ogni particolare di quel giorno tragico, il caldo asfissiante, i calabroni, il cane del vicino che non la smetteva d’abbaiare. E credo sia stato il caldo o il cane a far perdere la testa a Gianni, che di solito non faceva lavori in giardino, stava sempre in casa, e invece quel giorno in preda a chissà quale febbre o follia, approfittando dell’assenza della moglie, era uscito con un tronchese e una sega, era salito su una scala e aveva cominciato lo scempio, il peggiore che abbia mai vissuto e nel peggiore dei momenti per potare: ero in fiore, coi corbezzoli rossi, meravigliosi, e il fogliame giovane, di un verde commovente.
E lui, folle, si era messo a tagliar tutto, proprio tutto, e alla fine ero rimasto nudo, con quattro braccia rivolte al cielo come a pregare Iddio di proteggere il resto, perché poteva privarmi anche del tronco. Non voglio diventare la base di un tavolino, urlavo disperato, ma lui non sentiva, metteva rami e foglie dentro enormi buste di plastica nera, orrende bare dei miei poveri resti, che invece di esser lasciati nella natura finivano in discarica insieme alle schifezze, tragedia nella tragedia.
Eppure le ferite si sono rimarginate, i rami sono cresciuti di nuovo, e con loro le foglie, i fiori, i frutti, così l’anno dopo ero di nuovo bello e ammirato da tutti. Lui, Gianni, non faceva che dire alla moglie hai visto che ho fatto bene, guarda quanto è bello! e lei molto più saggia rispondeva solo perché è una pianta intelligente, ha saputo reagire alla tua inutile violenza. Proprio così, mi ha salvato la testa, o l’anima, come preferite, perché dopo lo scempio ho deciso di concentrare tutte le energie sull’apparato radicale mettendo in stand by tutto il resto visto che di fotosintesi non era il caso di parlare, non avevo neanche una foglia. Questo significava soprattutto selezionare i minerali giusti per arginare le ferite e ristabilire un equilibrio biologico adeguato alla mia condizione, quindi molto carbonio, calcio e magnesio, oltre naturalmente agli elementi nutritivi abituali, idrogeno, azoto, cloro, boro eccetera. In altre parole, inutile succhiare fosforo e potassio senza frutti e fiori da alimentare. Il problema principale, considerate le temperature estive (c’erano trenta gradi già al mattino, con punte di trentacinque a mezzogiorno), era cicatrizzare le ferite, perché se manca la corteccia l’albero non riesce a proteggersi dagli agenti esterni (d’inverno questo non è un problema). E poi d’estate la velocità di scorrimento della linfa è massima e sono molto maggiori i problemi connessi alla coagulazione. Ma forse vi sto annoiando, torno subito all’anima.

3 commenti:

  1. la cosa sorprendente di queto romanzo è che, via via che lo leggi, ti sovvengono pensieri, considerazioni, domande, e subito dopo trovi conferma dei pensieri, sostegno alle considerazioni e risposte alle domande...

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  2. IO vorrei leggerlo tutto..non posso aspettare un capitolo alla settimana...

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  3. infatti, è una tortura! per l'amor di Dio pubblicateglielo!

    (anonimo?)

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