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giovedì 23 febbraio 2012

capitolo sette


le foto in copertina sono di Bobby Neel adams: agemaps consiglio di vederle tutte



SETTE

Adelina adesso è un orologio a cucù. L’ho appesa in soggiorno e ogni quarto d’ora mi dice ti amo e anche altre cose che però non capisco, credo si riferisca alla sua nostalgia per le valli alpine o forse a Innsbruck, spero che non si lamenti per dove l’ho messa. Ma non sembra un lamento, sembrano constatazioni o suggerimenti, tipo piove o ricordati il latte. Cara dolce Adelina, amore della mia vita. Quando mi sento molto solo la vorrei portare con me nel letto, ma ho paura di morire nel sonno ed esser trovato abbracciato a un orologio a cucù.
L’ho detto ai miei amici che mia moglie è un cucù, non ci hanno creduto tranne Ciocci, per lui era normalissimo. Diceva che siamo tutti falsi, inventati da una penna perversa, che lui inventato lo è di sicuro ma lo sono anch’io, quindi perché sorprendersi di una moglie cucù? Il suo discorso era ineccepibile, ma partiva da argomentazioni sballate, cioè che fossimo tutti falsi. Ma come può dire una cosa simile? Quello si è bevuto il cervello! Un discorso è il cucù, normalissimo, un’altra è che viviamo nell’immaginazione di uno scrittore, pura follia.
Ma devo finire la storia del mio apprendistato. Ho già detto che c’era venuta una tale passione per la pittura, Adelina coi suoi monti ed io cogli orizzonti, che volevamo farci costruire un atelier sul solarium. Poi Adelina è venuta a mancare e non se n’è fatto niente, ero troppo triste per pensare al futuro, anzi volevo gettarmi anch’io nel dirupo o dal solarium. Il giorno del funerale, come si usa a Marina di San Nicola, sono venuti i vicini a farmi le condoglianze e io gli ho offerto i tozzetti al cioccolato, anche questa una tradizione locale. Si mangiano tozzetti e si dicono parole di conforto ai familiari del defunto. Tra i presenti c’era un tale, grosso, vestito da agente immobiliare con le caratteristiche scarpe a punta e il colletto della camicia enorme e rigido. Si guardava attorno come per fare un preventivo, ma a un certo punto dice mi dispiace per sua moglie, lei però è un vero artista, e per fortuna è vivo, permetta che mi presenti, Oscar D’Amelio, albergatore. Gli dico piacere e grazie del complimento e lui subito attacca a propormi di vendere tutti i miei quadri (non quelli di Adelina, che comunque non avrei mai dato via) per appenderli nelle stanze del suo albergo Miramare quant’è bello. Mi offre una cifra pazzesca e io non ci penso due volte, vendo. Li avrei fatti di nuovo, pensavo, e con i soldi potevo pagare il funerale.
Passarono poi mesi orribili, mi sentivo l’ultimo degli uomini ed era un miracolo che al mattino non corressi a Canale Monterano per gettarmi nel baratro. Un bel giorno, si fa per dire, Oscar D’Amelio mi chiama al telefono e mi chiede un appuntamento per parlare d’affari. Si presenta nella mia nuova villona appena ristrutturata ma triste più di un obitorio, trecento metri quadri per un uomo solo distrutto dal dolore, mi sarebbe bastato un camper, si presenta e dice subito che da quando ha appeso i miei quadri la clientela è triplicata, quindi vuole costruire due nuovi alberghi e metterci altri dipinti del grande artista. Dice proprio così, del grande artista.
È stato un vero toccasana, mi ha ridato fiducia e voglia di non gettarmi nel dirupo. Ho detto di si e mi son messo al lavoro. In circa due mesi ho dipinto venti nuove tele, sviluppando già allora una tecnica di tipo industriale, cioè dipingere contemporaneamente più tele per non perdere tempo. Perché il problema numero uno per chi dipinge quadri figurativi è che capita spesso di dover aspettare che il colore si asciughi, qundi se si dipinge un quadro per volta ci vogliono molte settimane. Per fortuna nella nuova villona non mancavano gli spazi, c’era una sala hobby nel seminterrato di cento metri quadri, gigantesca, forse un po’ umida ma non si può avere tutto. Ho comprato dieci cavalletti all’ingrosso, le tele e un bel po’ di tubetti, poi subito al lavoro: preparazione dello sfondo, cestino, frutti, optional per diversificare un po’, una bottiglia qua, un violino là, un trespolo con bengalino, un calendario Pirelli.
D’Amelio era entusiasta, mi diceva che molti clienti che dovevano restare una notte si trovavano talmente bene che prolungavano il soggiorno per una settimana, che c’era addirittura una coppia sui sessanta che non se ne andava più, la camera con il mio quadro gli aveva ridato la gioia che credevano persa, avevano addirittura ripreso una regolare ed intensa attività amorosa, questo lo dicevano le cameriere che al mattino rifacevano il letto, un campo di battaglia.
Va da sé (quanto mi piace scrivere va da sé!) che le voci girano e presto accadde che cominciarono ad arrivare richieste da altri albergatori, prima della zona qui intorno, Torrimpietra, Castel Di Guido, Maccarese, Fregene, e poi da molto lontano, Seattle, San Francisco, Los Angeles, New York. Capite bene che per un pittore che c’è diventato per caso, autodidatta, che dipinge per hobby e poi vende le prime tele negli alberghetti del litorale laziale, ricevere commissioni da New York è qualcosa di incredibile, adesso mi sono abituato ma allora mi sembrava di vivere in un sogno. Era successo così, un certo John Osborne di Seattle era venuto a Roma per affari e aveva pernottato una notte in un albergo di Tarquinia, rimanendo entusiasta del senso di riposo provato al mattino. I didn’t feel so well from buggy’s time, non mi sentivo così bene dai tempi del passeggino, diceva in giro, e l’albergatore gli confidò il segreto, era merito dei miei quadri, in tutto l’alto Lazio e la bassa Maremma non c’è un hotel senza le nature morte del maestro del colore, così mi chiamavano prima del soprannome che mi hanno appioppato in seguito, Megliodigiotto. Quel tale Osborne era a capo di una rete di alberghi che copriva tutta la costa atlantica degli Stati Uniti, da Boston a New York, Filadelfia, Washington fino a Miami, e in tutti i suoi alberghi decise di mettere i quadri del grande artista italiano. Da allora non ho più smesso di dipingere nature morte e spedirle negli Stati Uniti.
L’unico problema è che sono incapace di farmi pagare molto o giusto, non ci dormirei la notte e sarebbe un vero paradosso: proprio io che con i quadri faccio dormire migliaia di persone come angioletti poi rimango insonne coi sensi di colpa. La tela costa quindici euro, il colore altri dieci, l’acqua ragia cinquanta centesimi, l’usura del pennello altri cinquanta e poi la manodopera, quindi ventisei euro più la manodopera, io chiedo duecento più le spese di spedizione. Mi sembra giusto, ma so che in America se la ridono, sanno che se l’offerta cresce deve crescere anche il costo della merce. Ma sono solo nature morte, cestini di frutta, come faccio a chiedere di più! E a me comunque basta, ho già detto che posso permettermi anche il filetto, ogni tanto.
John Osborne mi ha proposto di essere il mio manager, dice che se mi trasferisco in America faremo affari d’oro, diventerò l’uomo dell’anno della rivista Time. Io ho risposto di no, per adesso sto bene qui, e poi ho gli amici di Ponte Sisto. Ho scritto ad Osborne che se vado in America rischio di vedere inaridita la mia vena artistica (tutte balle, lo so) come è successo a tutti gli artisti europei che ci sono andati durante il nazifascismo (altra balla gigantesca) e poi avrei troppa nostalgia dei miei amici. Mi ha risposto che se ci vado darà ai miei amici una pensione di quattromila dollari al mese più vitto e alloggio gratis in uno dei suoi alberghi. Mi è venuto un colpo, i miei amici ci resterebbero secchi, non vedono un centesimo dai tempi della lira, che ci fanno con tutti quei soldi? Lo so che ci fanno, si rovinano, invece del vino dei castelli finiscono a whisky and soda, durano al massimo un paio di mesi. Quindi non dirò niente, per adesso non dico niente.

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