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venerdì 8 giugno 2012

SU FOGU capitoli quarantasei quarantasette


46. La mattina seguente Giuseppe iscrisse sul registro degli indagati il nome di Deidda, Salvatore, nato a Quartu Sant’Elena il 9 maggio 1972, comandante dei Vigili del fuoco.
Eravamo entrambi avviliti e perplessi, ma ormai anche certi, senza ombra di dubbio, della colpevolezza del povero Salvatore. Dovevano aver tirato per le lunghe la loro tresca: da un'estate all'altra, con un inverno di cruda astinenza di mezzo. Doveva essere stata una faccenda di ripicche, urla, graffi e sudore. Almeno Giuseppe e io la immaginavamo così, non perché fossimo maliziosi, o troppo fantasiosi: semplicemente perché, dopo un po', le storie come quelle si somigliano tutte. Poi probabilmente la signora si era stufata, o spaventata. Chissà, avrà visto troppo vicino il punto di non ritorno. In fondo aveva parecchio da perdere: i soldi, e quel poco di equilibrio che le era rimasto. Avrà voluto troncare, e non doveva essere una persona così attenta ai sentimenti altrui. Salvatore forse non se lo aspettava. Si sarà sentito ferito. O forse era geloso. E infine l'aveva fatto - casualmente, premeditatamente, non aveva importanza - l'aveva uccisa e, per occultare il suo gesto, aveva ucciso ancora, con il fuoco. Il capo dei pompieri!
Una persona per bene, padre di famiglia, affidabile, disponibile, gran lavoratore, benvoluto da superiori e sottoposti: più che una tragedia sembrava un feuilleton. Casula e io ci agitavamo in preda all'imbarazzo, non solo perché ci dispiaceva dover colpire una persona stimata, ma per tutte le gravi implicazioni di quell'arresto. Discutemmo animatamente sul da farsi, soprattutto per quanto riguardava i media:: giornali e televisioni si sarebbero scagliati sulla notizia, allettante in quello scialbo scorcio d'estate, soprattutto per lo scandaloso intreccio tra la piaga degli incendi e le au­torità preposte a limitarla, con implicito e gravissimo discredito di queste ultime. Ci chiedevamo cosa ne avrebbe pensato il Sindaco; anzi il pensiero del giovane rampante alle prese con una torma di giornalisti che gli sputtanava la sua isola felice fu l'unica fonte di sorrisi di quella mattinata cupa. Inoltre sentivamo di dovere qualcosa a Deidda, non foss'altro perché non eravamo certi delle motivazioni del suo gesto: poteva aver agito sotto forte pressione psicologica, o in preda al fu­rore o a chissà che altro. Come persona, poi, poteva essere tutto, ma certo non un criminale e la sua posizione, pubblica e familiare, gli dava diritto a un minimo di riguardo. Telefonammo alla sua caserma e, senza far parola di quanto stava succedendo, chiedemmo di nuovo notizie sui suoi movimenti: ci dissero che sarebbe tor­nato dalle ferie il lunedì successivo e che aveva lasciato un suo recapito, per eventuali urgenze. A quanto pareva, per fortuna, non aveva intenzione di fuggire, e d'altronde non ne avrebbe avuto motivo. Era venerdì, dunque sarebbe rientrato al lavoro subito dopo il week-end: non occorreva andarlo a prelevare al suo paese, davanti agli occhi dei geni­tori, dei compaesani e dei figli; potevamo aspettare e, dopo, cercare di convocarlo senza troppo clamore. Casula strappò l'avviso di garanzia e decise che, prima di prendere provvedimenti immodificabili, voleva parlargli, per capire meglio. Non avevo niente da eccepire. Anzi, lo trovavo giustissimo.

47. Si preparava un fine settimana deprimente. Uscendo dal mio ufficio, verso le due del pomeriggio, mi riparai dalla pioggia, non più tempestosa ma fitta e battente, con un vecchio ombrello che lasciavamo in ufficio per uso comune. Nel breve tratto dal portone alla macchina mi inzuppai completamente, perché l'uso comune, come è noto, non favorisce la conservazione. Arrivato a casa riempii la mia meravigliosa vasca, misi Eric Clapton a tutto volume e cercai, invano, di rilassarmi. Tutte le certezze del giorno prima stavano svanendo, per lasciare il posto al solito, fastidioso pessimismo che continuava a impedirmi qualsiasi rappacificazione, persino immaginaria, con Marta. Prima cosa: perché mai avrei dovuto riconciliarmi? Cosa c'era di così necessario in quel rapporto? Seconda cosa: per colpa mia, Marta era stata costretta a rimanere in Sardegna,  lontana dal lavoro, dagli amici, dalla famiglia. Sarebbe stata disposta a perdonarmelo? Terza cosa: poteva una brillante intuizione cancellare un grave errore e una sensazione di sfiducia reciproca?
Presi una decisione guidato dall'impulso del momento, cosa che non faccio quasi mai. Uscii dalla vasca, mi vestii, spensi Clapton e presi la macchina, diretto verso la  pensione di Marta, dopo aver indugiato a lungo su una bottiglia di rum, tanto per darmi coraggio.
Pioveva ancora, in giro non c'era anima viva: erano le cinque e sembravano le otto. Alla pensione non la trovai. Senza sapere perché riattraversai il paese e puntai verso il bar dell'Associazione Velica. Marta era lì, seduta al mio tavolo e guardava fuori, verso un mare grigio cenere.
- Abbiamo avuto la stessa idea. - Si voltò lentamente nella mia direzione, guardò i miei piedi e tornò alla contem­plazione del mare. - Posso sedermi?
- Prego.
- Sei ancora arrabbiata?
- No.
- Vuoi qualcosa?
- Ho già ordinato. - Indicò la tazza di the che le stava davanti, vuota. Il barista era sparito dietro lo scaffale degli alcolici; dagli altoparlanti, in sordina, uscirono le prime note di una canzone e il cameriere ricomparve: anche a lui piaceva Eric Clapton. Forse era un segno del destino: gli feci un cenno e, per rispettare la sequenza scaramantica, ordinai un rum.
- Puoi ripartire.
- In che senso?
- Nel senso che te ne puoi tornare a Roma: abbiamo capito chi è stato. - Per la prima volta mi guardò negli occhi. Provai la stessa emozione di venti giorni prima, solo che adesso era tutto molto diverso.
- Non hai più bisogno di me?
- Nemmeno prima avevamo bisogno di te: è la procedura, siamo costretti a fare così. Il sostituto ha detto... - improvvisamente mi resi conto del significato delle mie parole. Perché facevo e dicevo sempre e soltanto cose sbagliate? Ormai ero in caduta libera. Le presi la mano. - No, scusa: il sostituto non c'entra niente, e nemmeno queste maledette indagini. Sono io che ho un disperato bisogno di te, puoi credermi se vuoi, oppure no. Ci ho pensato su, a lungo e senza risultati, com'è ovvio. Se non che dovevo dirtelo. Così mi metto completamente nelle tue mani: è un modo come un altro per essere vili.
Sottrasse la mano e fissò la tazza del the. Nei suoi occhi c'era solo un'indifferenza incattivita, un pessimo segno.
- Quando potrei ripartire?
- Anche oggi, se fai in tempo. - L'incattivimento, si sa, è contagioso.
- Non so se voglio partire.
- Allora resta: il paese è piccolo, lo avrai notato, ma volendo si riesce benissimo a non incontrarsi mai.
- Non ti sei comportato bene, commissario Fontana. - Era un sorriso, o una smorfia di imbarazzo?
- Nemmeno tu, se è per questo. Ma il nodo della questione non è qui.
- Chi è il colpevole?
- Deidda. Il comandante dei pompieri.
- Sul serio?!
- Serissimo. Purtroppo. Ti sembrerà strano, ma non sappiamo come dirglielo. Perché non vuoi partire?
- Perché ho iniziato un'altra ricerca. Ho sentito Vetrano per telefono, dopo la vostra convocazione: gli dovevo delle spiegazioni e lui è stato davvero comprensivo. Gli ho detto come stavano le cose, che io ero sospettata e tutto il resto. Mi è sembrato che cadesse dalle nuvole. Era stupito, e spaventato: vuol dire che sei stato abile e anche più corretto di quanto non avessi pensato. Ma questo non c'entra. L'importante è che mi ha assicurato la sua fiducia e il suo appoggio e, lì per lì, si è inventato una nuova ricerca da farmi fare, spesata, questa volta.
- Sono contento per te.
- No, sei contento per te.
- Già. Ma non nel senso che credi tu. Io e la mia coscienza non ci parliamo quasi.
Non avevo sfoggiato la mia abilità professionale, non avevo riassunto per lei le scintille e il fulgore della grande intuizione; del mio progetto originario era rimasto ben poco, eppure mi sentivo soddisfatto. Forse ero un po' ubriaco. Finii il mio rum e la salutai, cortesemente. Arrivato a metà del salone mi fermai, tornai al tavolino, poggiai una mano sulla sua spalla e mi chinai a sfiorarle le labbra, velocemente, con un bacio. Forse ero completamente ubriaco. 

9 commenti:

  1. da che ho messo i commenti in moderazione nessun commento

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  2. Cosa vuol dire che hai messo i commenti in moderazione?

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  3. Ah, adesso l'ho capito! Compare una scritta con scritto (appunto) "il tuo commento sarà visibile dopo l'approvazione". Spero sia obbligatorio per legge, perché altrimenti ti saresti assunto da solo la terribile rottura di leggere EFFETTIVAMENTE tutti i commenti!! Ma il giallo lo leggi? E lo approvi? Pilon

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  4. nel capitolo 48 si capisce chi è l'assassino, tutti gli altri capitoli sono un commento morale e didascalico per insegnare al lettore a non uccidere mai, anche quando uno ne ha una gran voglia, perché l'autore sa che la lettura deve sempre insegnare qualcosa di utile
    Enrico C.

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  5. questa dell'approvazione è una carognata, io voglio essere libero di scrivere quelo che mi pare, cacchio, adesso faccio una prova, se l'editore è un vigliacco non darà l'approvazione, se è invece ha fegato deve pubblicare. Scrivo questo: la cagna dell'editore invece di Nenè dovevano chiamarla Lumaca per quanto va lenta, sua figlia invece di Rubi dovevano chiamarla Sciumi. E poi è pelosa, esteticamente non è un granché, chissà come ha potuto fare una figlia così bella, e anche di carattere è mediocre, contrariamente alla figlia. Una cosa è certa, Rubi ha preso dal padre

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  6. Io ne ho messi due ma ancora non sono comparsi...

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  7. Io ne ho messi due ma non sono mai più comparsi

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  8. Io ne ho messi due ma ancora non sono comparsi...

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  9. bravo editore, hai avuto fegato, hai la mia ammirazione e adesso ti voglio premiare: in effetti Nenè e Rubi sono entrambe molto veloci, solo che Nenè lo è un filino di meno, tutto qua. I lettori saranno curiosi di conoscere le circostanze del fortunato accoppiamento che ha poi generato Rubi, credo a Riva di Tures, potresti raccontarci qualcosa? E per favore puoi pubblicare una foto in cui ci sono tutte e due?
    grazie

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